giovedì 9 dicembre 2010

Io, straniero in un angolo di paradiso!


“Ci vuole sempre qualcuno da odiare
per giustificare la propria miseria”

Umberto Eco


di Mattia Pacella,

http://www.mattiapacella.com/:


Guardo dalla finestra e vedo solo neve. Tutto bianco, tutto così naturale. Sembra un paradiso. C’è pace, serenità, armonia. Lo sguardo si perde. Il tempo sembra scorrere centellinato dalle gocce che scivolano dalle fronde. La natura alle volte è fantastica, ma ti fa anche capire che se ne frega di tutto il resto. La sua armonia, purtroppo, non coincide quasi mai con quella dell’uomo. Ti fa comprendere, come diceva Saramago, che la felicità è una questione individuale, che il mondo, lui, non sarà mai felice allo stesso modo. Ma io non ci sto, non mi rassegno a pensare che le cose siano così come stanno per natura. Le ultime vicende politiche del mio paese mi ossessionano, mi tempestano il cervello, non mi danno tregua. Tra le tempie rimbalzano pensieri masochisti che vorrei gridare a tutti. Io sono straniero, nato e cresciuto in un paese dove lo straniero è ora marchiato. Ma chi ne parla? Tutto sembra normale, naturale, come la neve.

Io vivo in un paese piccolo, piccolissimo. A sud della Svizzera. Anzi, al sud del sud della Svizzera. In Ticino, terra di frontiera. Si chiama Meride, 300 abitanti. Un borgo di collina ai piedi delle Alpi, incuneato tra le radici del monte San Giorgio, patrimonio mondiale dell’Unesco dal 2003. Terra di fossili, di marmi, di vigne, di artisti, di fate e di elfi. Le leggende sono dappertutto. Le pietre triassiche intrise di tracce del passato testimoniano un tempo dove le frontiere erano montagne e laghi. Fiumi, non ramine di ferro e linee immaginarie.

Ma non ci sono solo frontiere. La vita della piccola comunità è un faro che illumina una Svizzera spocchiosa, boriosa, piena della sua opulenza. Allergica all’altro. Apatica. Qui, le famiglie venezuelane, italiane, tedesche, slave, portoghesi e svizzere, vivono assieme trovando ognuna la giusta posizione. La propria armonia. Sono come fiocchi di neve che cadono uno dopo l’altro trasformando il territorio, dandogli forma soffice, soave, precisa. Qui, si vive un esempio di integrazione riuscita. Un’oasi di pace, un piccolo angolo di paradiso che contraddice una delle molte iniziative xenofobe.

Tra queste montagne è come se ci fosse una bussola, una bandiera che dovrebbe fare strada a chi crede che dalla diversità si possa trarre ricchezza. Non solo con il pensiero, ma anche con l'azione. Alle urne, lo scorso 28 novembre, il 60% dei cittadini del mio paese ha infatti detto no a un’iniziativa, ormai legge, che prevede l’espulsione automatica per stranieri che si macchiano di reati gravi. Solo 4 comuni in tutto il canton Ticino si sono opposti. Incredibile, ma tristemente vero. Una piccolezza, un’infima minoranza in controtendenza. Una minoranza che però ci fa capire che c’è ancora gente che non ha paura dell’altro. Il cervello vince sullo stomaco. Da questi microcosmi, forse, si può ripartire, può nascere una piccola speranza.

Io sono nato in Svizzera, 26 anni fa. Sono figlio di migranti. Figlio di italiani che partirono per cercare una nuova vita. I miei nonni si trasferirono negli anni Sessanta non tanto per necessità, ma per volontà. Scoprendo la bellezza del Ticino, integrandosi, ma soffrendo talvolta la nostalgia della propria terra. Molto più spesso sudarono, e si macchiarono le mani di lavoro. Spaccandosi la schiena alla cassa di un supermarket. Scheggiandosi le iridi degli occhi per smerigliare lamiere. Tutto per dare un futuro ai propri figli, ai propri nipoti. Dare la possibilità di studiare, di capire, di leggere questo mondo. La possibilità di migliorarsi.

Gli italiani, i portoghesi, gli spagnoli, gli slavi sono sovente le braccia della Svizzera. Una forza fisica dimenticata, ignorata. Sono la fronte bagnata che zampilla fatica, ma non solo di ieri. Oggi, ad esempio, chi ha scavato l’AlpTransit, il collegamento della Svizzera all’Europa, il fiore all’occhiello della tecnologia elvetica, sono molte di quelle braccia. Sono mani straniere ricoperte da polvere e calli. La stragrande maggioranza dei 2.000 operai provengono infatti dal Portogallo, dalla Turchia, dall'Italia, dall'Austria, dalla Germania, dalla Croazia. È stato eccitante vedere le bandiere di tutto il mondo alzarsi in un tunnel buio di Faido per festeggiare insieme l’ultimo diaframma caduto. Ma chi ne parla di queste storie? È molto più semplice puntare il dito, che non tendere la mano. È molto più facile incolpare uno straniero di un crimine presunto, che non valorizzarlo per la sua fatica.

Il problema della criminalità straniera esiste, eccome. Chi lo nega avrebbe una visione miope. Se io facessi un reato, il più grave dei reati, sarebbe sacrosanto che pagassi: con multe, con il carcere, con pene rigorose e giuste. Qualsiasi straniero che faccia un reato deve pagare tanto quanto lo svizzero. Ma perché creare distinzione tra razze? È così che si risolve il problema della criminalità? È una follia volere che la giustizia sia uguale per tutti senza distinzione?

Il mio sangue è anche l’uva della vigna che ho raccolto, le mie cellule sono il cibo del macellaio all’angolo, l’aria salubre della montagna che respiro riempie i miei polmoni e li ha sempre riempiti. Come è possibile cacciarmi da dove sono nato? Anch’io, straniero di seconda generazione, potrò essere espulso. Sottratto alla terra dove sono cresciuto, dove ho famiglia, amicizie, sentimenti, lavoro. Io che ho studiato in un’università svizzera, io che lavoro e osservo la politica svizzera, io che ho contribuito con i miei soldi per lo Stato svizzero. Mi sento folle, mi sento un nemico.

Eppure se ci penso, in fondo, è sempre stato così. D’altronde, come ci insegnano gli storici il senso di identità si è sempre fondato sull’odio per chi non è identico. Sull’odio per lo straniero, per il nemico, causa di tutti i mali. Primo Levi ci può insegnare. Ma sarebbe inutile cercare il nemico lontano, molto meglio se riconoscibile e vicino a casa. Non so se in futuro cambierà qualcosa, le tendenze e le ideologie dominanti suggeriscono il contrario. Ma io non ci sto. Non riesco a concepire l’odio come l’unica passione primordiale, come se l’amore per l’altro fosse una situazione anomala, contro natura. Espressa solo nel rapporto di coppia. I milioni di ebrei, armeni, serbi, tibetani, indiani sterminati non ci hanno forse insegnato nulla.

Mi sento un eretico a scrivere queste frasi, un emarginato, un misantropo che bestemmia parole anacronistiche e guarda il mondo come non è, o peggio, per come dovrebbe essere. In certi momenti è proprio vero che non c’è altro da fare che assecondare le tue ossessioni come qualcosa che non scegli, come qualcosa che subisci e basta. Ma non posso esimermi dal parlare, dal raccontare. Dal dare un’opinione. Non mi do pace. È difficile, però sono persuaso che la parola, se decidi di affermarla con convinzione, possa fare riflettere. Possa far emergere nell’altro la voglia, seppur minima, di confrontarsi, di rompere il tabù, l’indifferenza che ci tiene prigionieri di noi stessi. Certo, c’è sempre il rischio di sbagliarsi, ma sono convinto che è meglio l’errore piuttosto che il silenzio.

Guardo dalla finestra, la neve non si scioglie più. Una leggera nebbia nasconde il sole. Le fronde degli alberi sono macchie scure travolte da un fiume carsico. Non per questo però il paesaggio è meno incantevole. La bellezza è sempre lì, intatta, ma nascosta. Basta spogliarsi dei propri pregiudizi e incominciare a cercarla. Bisogna semplicemente smettere di guardare e cominciare a osservare. Uscire, muoversi, scavare, mettere in ordine le proprie azioni. Tra questi pensieri mi viene in mente che l’ultimo premio nobel per la letteratura, Vargas Llosa, intitolava un suo libro “Il paradiso è altrove”. Forse si sbagliava. Il paradiso, anche se non si vede, non è poi così lontano. Il paradiso è qui, tra noi. Basta cercarlo.

Mattia Pacella

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