domenica 31 ottobre 2010

Se mangio ferro ci sarà un motivo: parte 2!

Irving Penn: "Les petites métiers", esposizione in corso al "Musée de l'Elysée" di Losanna.



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Nella sua cieca paranoia Agapito dimentica il passato, la storia della sua famiglia. Le radici del suo albero genealogico, come quelle di moltissimi ticinesi, affondano infatti nel fertile terreno delle migrazioni. Suo nonno alla fine del secolo scorso era arrivato dalla valle Brembana in Ticino. Qui, stanziatosi a Breno nel Malcantone, era stato stregato da una maestrina che ben presto sarebbe diventata sua moglie. Per portare a casa la pagnotta – e mai espressione fu più vera - Finetta, così si chiamava la nonna, partiva il mattino presto a piedi ed attraversava la montagna per andare ad insegnare in Italia, a Monteviasco. La sera, dopo il lavoro, ritornava a casa. Questo da marzo a dicembre, perché d’inverno, causa la neve, era costretta ad affittare una stanza in quel villaggio, labirinto di viottoli e piode incastonato al versante italiano del monte Lema.

Finetta, d’inverno lavoratrice stagionale e d’estate frontaliera, era la regola, non l’eccezione. Il Ticino era un luogo povero e crudo. Uno sputo napoleonico, terra di migranti. Finetta li ha conosciuti quegli uomini partiti, chi lontano per l’Australia o la Merica (così come veniva erroneamente chiamata), chi, più vicino, per andare a fare il fornaio o l’arrotino a Milano o a vangare fossi e vigne in Piemonte. Molti partivano alla fine dell’autunno e giravano tutto il nord Italia a fare gli spazzacamini. Le famiglie si incontravano due volte l’anno, riunioni dalle quali, nove mesi dopo, nasceva nuova figliolanza pronta a portare avanti le economie. Alcuni fornaciai del Malcantone divennero proprietari di fornaci in Italia. Diventarono così datori di lavoro dei propri compaesani tra i quali molti prozii di quell’Agapito che oggi è il primo a inveire contro chi arriva a lavorare.

I libri di storia ci informano che tra le 10 e le 15 mila persone, un terzo della forza attiva maschile, emigrò dal Ticino già nella prima metà dell’ottocento. Molti villaggi si svuotarono, dissanguati come capretti, molti migranti non tornarono mai, persi tra le braccia di qualche donna lontana o scomparsi nei casi della vita. I proventi dell’emigrazione furono la principale entrata finanziaria che garantì un certo sviluppo al cantone piegato allora dalla miseria, dalla lotta all’ultima castagna.

Mentre molti se ne andarono, altri arrivarono. Erano forestieri provenienti da tutto il Nord Italia, dalla Valtellina, dall’Ossola, dalle valli trentine o bergamasche o addirittura dalla Liguria o dal Piacentino. Tra di loro Dino, detto ul bergum, il nonno di Agapito, che era arrivato dalla valle Brembana come bracciante agricolo stagionale per poi fermarsi definitivamente, stordito dallo sguardo bello e dolce di Finetta. Bellezza e dolcezza, erano poche le donne dell’epoca a poter sfoggiare tali beni. Dino non se la fece sfuggire.

Tutto questo Agapito non lo sa. Non ha mai conosciuto i suoi nonni, morti entrambi, nel giro di qualche mese, prima della nascita del nipote. La storia d’amore tra la Finetta e Dino ul bergum, figlia dell’immigrazione e del sudore, non è stata tramandata ai posteri. Rimane una fotografia giallonea che non parla.

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giovedì 28 ottobre 2010

Se mangio ferro ci sarà un motivo: parte 1!

Da oggi, e per le prossime due settimane, l'OrA DelL'EReSiA ospiterà un racconto. Verrà narrato un episodio della vita di Agapito, "cercatore di funghi ticinese con lontane origini bergamasche, essendo suo nonno paterno emigrato dalla valle Brembana nel secolo scorso".
Per ragioni di spazio l’episodio verrà frammentato in sei parti che saranno pubblicate a partire da oggi, con un intervallo di due/tre giorni tra una parte e l’altra.
L'ignoto autore mi prega di comunicare che si tratta di un racconto di fantasia; possibili riferimenti a personaggi o eventi sono frutto dell’impetuoso caso. L’eventuale lettore vorrà inoltre perdonare le divagazioni e le valutazioni soggettive dell’io narrante, unico responsabile degli eventi narrati.



Se mangio ferro ci sarà un motivo!


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Luna crescente di metà settembre, Agapito l’ha scelto bene il suo giorno di libero. Nei giorni precedenti era scesa una pioggerella costante che aveva reso umido il sottobosco, mentre oggi la giornata appare splendida, limpida ma non ventosa. Il giovedì inoltre è un giorno perfetto, lontano quanto basta dal fine settimana, dove una folla di maneschi è solita invadere i boschi del Malcantone. Le domeniche di fine estate non si contano i veicoli posteggiati a ridosso di quella barriera che il patriziato ha fatto installare qualche anno fa, quando la situazione cominciò a degenerare. La consueta invasione pacifica di auto, molte delle quali provenienti da oltreconfine. Agapito non li sopporta questi frontalieri del fine settimana: “Tutt talián, chi stia à ca’ lòr. Ga i a miga i fünc da l’altra part de la ràmina?” è solito sbuffare ogni volta che incrocia auto italiane nelle vicinanze dei boschi.

Come molti suoi compaesani Agapito è stato colpito dalla fobia dello straniero. È quasi in pensione e potrebbe godersi al meglio la vita, ma la paranoia dello straniero lo attanaglia e lo rende acido come un cedro. Il forestiero è il suo incubo: ruba il lavoro, commette reati, abusa e stupra. Almeno, così l’ha letto sul giornale e l’ha sentito sbraitare alla tv. A lui piace la gente che parla chiaro, senza troppi fronzoli: “Qualche volta un dito medio bisogna pur alzarlo. O no?”

L’origine di questa patologia risale ad una decina di anni fa. Un episodio personale, una zuffa con un portoghese, gliel’aveva fatto capire: “stranieri di merda”. Una vicenda banale, questioni di parcheggio, nulla più, anche se le malelingue alludono a una faccenda di donne, essendo la lite avvenuto nelle vicinanze del noto locale notturno “il PappaGorgia”. Non è nostro compito andare oltre nelle indagini, resta il fatto che l’episodio si era trascinato davanti al giudice di pace che aveva multato Agapito per gli insulti pesantemente proferiti al portoghese. Da allora Agapito vive male la presenza di stranieri sul nostro territorio. Ne ha fatto una fobia, per certi versi grottesca. Per questo aveva accolto con favore tutti quei personaggi – politici, ciarlatani e trainamuli - che negli ultimi anni erano usciti allo scoperto per “difendere” il territorio ticinese da quelle che lui nominava le “invasioni barbariche”.

“Chii da föra i tròva lavór, e i nòss i timbra. Cazzo! Non bisogna fare come l’impero romano, bisogna bloccarli prima i barbari”, si era udito all’Osteria dell’Alligatore, il bar di paese dove Agapito beve l’aperitivo, “… e non ditemi che gli svizzeri non vogliono fare più certi mestieri…”. Tra gli habitué dell’Alligatore la frase sull’impero romano e le invasioni barbariche era diventata leggendaria. Agapito non é certo un maestro di storia.

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domenica 10 ottobre 2010

Di funghi e di frontiere...


“ […] Siamo in Ticino, paesi di bifolchi e terra di confine. Ci troviamo al sud della Svizzera. O meglio, siamo il sud della Svizzera. Il sud, da un punto di vista semantico, implica una connotazione negativa e d’inferiorità. Una volta erano l’est e l’ovest a farla da padrone, ma ora, complice la storia, si divide il globo sull’asse verticale dei punti cardinali (anche se l’aggettivo occidentale è ancora in voga, pur avendo connotati nordisti). Generalizzando, il Sud è quella parte del mondo sfruttata per arricchire il Nord. Il bello, si fa per dire, è che il sud ha il suo sud, ogni meridione ha il suo mezzogiorno. In effetti nord e sud sono un concetto relativo, sono una destra e una sinistra: dipende da che parte li guardi. A sud del canton Ticino c’è il Nord Italia, i cui abitanti si sentono dei veri settentrionali rispetto ai connazionali pugliesi, calabresi o siciliani. Non immaginano che in canton Ticino sono loro ad essere considerati meridionali.
Il sud è un capro espiatorio contro il quale sfogare il malessere, proprio e della società. Prendendo esempio dal Nord, capita che il Sud se la prenda…con il suo Sud. Così, in Ticino inveiamo contro gli italiani del Nord (e del Sud), in Nord Italia si scagliano con gli italiani del Sud. Questi ultimi se la prendono con i migranti che arrivano via mare da un sud chiamato Nord Africa. […]

Spesso la differenza tra un Sud ed un Nord (o tra il Nord ed il Sud) è un confine, luogo fittizio disegnato dalla storia con l’aiuto a volte della geografia. A separare il Ticino dall’Italia è spesso una barriera naturale: la cresta di una montagna, un lago o un fiume. Sono luoghi, quest’ultimi, abitati da esseri viventi indisciplinati. Un faggio, un capriolo, un pesce o un fungo sono immuni alla costruzione umana di confine. Per loro sud o nord è solo una questione di insolazione. Un fungo non è italiano o svizzero, ticinese o grigionese. Un fungo è un dono superpartes, spuntato dalla terra laddove le condizioni sono per lui le più ottimali. Un fungo è un essere apolitico.
Malgrado ciò c’è chi ha una visione più possessiva del fungo e cerca di stabilirne una proprietà a seconda del passaporto o della targa della macchina. In un periodo caratterizzato dall’odio verso il frontaliero, l’andare per funghi nei boschi del Malcantone, lungo il confine italo-svizzero, può minacciare gli umori e creare tensioni
[…]

A chi apparterrà il magico boleto?

[...] "


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