venerdì 29 gennaio 2010

I guerrieri dei semi!



Alle giornate del cinema svizzero di Soletta è stato proiettato il documentario di Mirjam Von Arx, “Seed Warriors”. Il film si propone di analizzare la problematica della sicurezza alimentare nel contesto del surriscaldamento climatico. Come ci viene spiegato nel sito internet del film (http://seedwarriors.org/), nel 2050 ci si aspetta un aumento di 2°C della temperatura media della terra che si tradurrà in una riduzione del 30% nella produzione di colture alimentari. In questo lasso di tempo la domanda globale di cibo raddoppierà. Come sfamare l’umanità?
Il film si propone di esaminare la realtà della lotta contro la fame. La locandina del film e il suo trailer sembrano concentrarsi sull’edificazione da parte della comunità internazionale della famosa banca dei semi di Longyearbean (Svalbard Global Seed Vault), remota località norvegese a soli 1000km dal polo nord. Qui, protetti da misure di sicurezza impressionanti, giacciono 4,5 milioni di semi. L’obiettivo di questa particolare banca è di garantire la sopravvivenza della biodiversità.

L’idea era quella di andare a vedere il film con alcuni amici interessati a questa problematica. Pagati i 40 franchi di treno, ecco che il film è sold out. Non abbiamo così potuto vedere l’angolo di riflessione proposto dalla regista e dagli scienziati protagonisti del documentario. Ci interessava ampliare la nostra idea su questa banca dei semi, sulla quale nutriamo forti dubbi.
Finanziata da varie fondazioni private, super pubblicizzata e super protetta, quella che è definita come l’arca di Noé dei semi dovrebbe salvaguardare la biodiversità in caso di catastrofi ambientali o nel caso di perdita del materiale genetico. Già, intanto però in tutto il pianeta si continua a favorire le monoculture industriali, le culture geneticamente modificate e la privatizzazione delle risorse genetiche. Ciò, naturalmente a discapito della biodiversità tanto declamata e della sovranità alimentare di interi paesi del sud del mondo e dei loro piccoli contadini. In pratica si tenta di salvaguardare la biodiversità ex situ (ossia fuori dalla natura e dal sua contesto evolutivo) anziché in situ. Come afferma l’organizzazione Grain: “Même s'il est vrai que la diversité des plantes cultivées nécessite d'être sauvegardée et protégée, car une diversité irremplaçable est en train de disparaître à une vitesse alarmante, compter uniquement sur l'enfouissement de semences dans des congélateurs n'est pas une réponse ».
La banca norvegese lascia molti dubbi quanto all’accesso a queste risorse genetiche così rigorosamente conservate. Per accedere alle semenze è necessario essere integrati in un quadro istituzionale di cui la maggioranza degli agricoltori, e soprattutto quelli poveri, non ne fanno parte. Ancora l’associazione Grain: “l'ensemble de la stratégie ex situ répond aux besoins des scientifiques et non des agriculteurs”.

La lista dei donatori e finanziatori del progetto norvegese (http://croptrust.org/main/donors.php; http://croptrust.org/documents/web/Funding%20Status%2004-01-10.pdf) va ad alimentare altri sospetti. Ecco qualche nome: DuPont/Pioneer Hi-Bred (una delle principali ditte di semi e prodotti geneticamente modificati del mondo), International Seed Federation (la lobby dell’industria delle sementi), Rockefeller Foundation (gli eroi della Rivoluzione verde e ora del “Land grabbing”), Bill&Melinda Gates Foundation (i nuovi eroi della solidarietà internazionale, di un certo tipo di solidarietà), Syngenta AG (multinazionale numero uno dell’agrobusiness), Syngenta Foundation for Sustainable Agricolture (il che é in sé una contraddizione in termini od un ossimoro). Ci si domanda sotto quale fondazione si nasconde la famigerata Monsanto. L’interesse da parte di questi gruppi non è sicuramente disinteressato e lascia molto perplessi. Per ora, dubitiamo!

Tornando al film devo ammettere che la sua presentazione ci ha fatto sorgere qualche perplessità. Il fatto di proporre il solito discorso, lo stesso dalle industrie agrochimiche, secondo cui entro il 2050 avremmo bisogno di raddoppiare la produzione di cibo (eccetera eccetera) contribuisce a nutrire i nostri sospetti. Tuttavia, come detto, il film non lo abbiamo potuto vedere e, essendoci persi in un simpatico bar di Soletta, ci è impossibile giudicare. Ecco il trailer. Il commento a quando l’avremo visto.




Riferimenti bibliografici

http://www.regjeringen.no/en/dep/lmd/campain/svalbard-global-seed-vault.html?id=462220
http://www.croptrust.org/main/arctic.php?itemid=211
http://www.grain.org/articles/?id=38
http://seedwarriors.org/en/trailer/?redirect=first-visit-only

mercoledì 27 gennaio 2010

Acqua nera, acqua sporca!

L'assoluzione, qualche settimana fa, di cinque agenti privati accusati della strage di Mansour ripropone la questione della privatizzazione della guerra e dell'immunità legislativa concessa alle compagnie private di sicurezza.



Le recours aux sociétés miliaires privée va désormais bien au-delà de l’externalisation de certaines fonctions de service. Il fait désormais partie intégrante de la transformation américaine. Les entreprises privées de sécurité interviennent largement à tous les stades des opérations extérieures. Présentes même dans la phase humanitaire, elles entretiennent la confusion entre les diverses acteurs de l’action internationale, et se développent hors de tout contrôle efficace, national ou international »
Sami Makki, chercheur du centre interdisciplinaire sur la paix et d’études stratégiques (CIPRES) de l’école des hautes études en sciences sociales de Paris.

Recentemente ho assistito ad una conferenza di Hervé Kempf, scrittore e giornalista di « le Monde », il quale ha elencato, tra le caratteristiche del capitalismo moderno, la tendenza ad una sempre maggiore mercificazione (“marchandisation”). Mercificazione di tutto, anche di quello che prima non era solito essere mercificato: il corpo, le risorse genetiche, la sicurezza pubblica.
Mi vorrei soffermare su questo elemento, prendendo anche spunto da un editoriale apparso recentemente sul New York Times (NYT), intitolato “privatized war, ad its price”. Si accenna all’inchiesta contro dei soldati privati americani che, l’11 settembre 2007, aprirono il fuoco contro delle automobili nel quartiere Mansour a Baghdad. Risultato: 17 iracheni morti, di cui 14 civili accertati. L’episodio suscitò molto scalpore anche in USA, tanto che (!!) si aprì un’inchiesta e si sviluppò un dibattito sull’utilizzo di personale privato in contesti di guerra. Un problema quello degli agenti privati di sicurezza che, seppur in maniera minore, è presente anche da noi. Tuttavia è negli Stati Uniti, dove vi sono compagnie private che partecipano a guerre reali, che la questione si impone maggiormente. La privatizzazione della guerra merita un approfondimento considerato che mette in discussione uno dei principi fondamentali sui quali si basa lo stato moderno: il monopolio legittimo della forza fisica.

Negli Stati Uniti il fenomeno cominciò verso la metà degli anni ‘90 con la nascita di alcune compagnie come la Blackwater, la DynCorp e la Triple Canopy. Fu poi l’amministrazione Bush che spinse sempre più verso la privatizzazione delle forze armate. Si parlò di una “ristrutturazione necessaria” per contenere le spese militari esplose a causa delle guerre in Afghanistan e in Iraq. Si esternalizzò dapprima alcuni compiti logistici per giungere poi ad una privatizzazione di tutte le altre funzioni legate all’esercito. Tra le quali partecipare a vere e proprie missioni di guerra. Le compagnie private costituiscono il secondo più grande esercito presente in Iraq, con all’incirca 100 mila uomini, di cui 48 000 identificabili come soldati veri e propri. Come hanno fatto queste compagnie, in così poco tempo, a raggiungere una tale capacità operativa?
Bisogna innanzi tutto considerare questa espansione nel contesto politico e ideologico che ha caratterizzato la presidenza Bush, soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre. L’esempio di Blackwater, la più grande compagnia di sicurezza privata al mondo e simbolo di questa privatizzazione della guerra, mette perfettamente in evidenza la stretta relazione tra la politica neoconservatrice portata avanti dalla Casa Bianca e l’espansione delle compagnie private di sicurezza.
Blackwater é stata fondata nel 1996 da Erik Prince, ex soldato del Navy Seal, il corpo d’élite dei marines. In principio la compagnia fu creata come una struttura d’addestramento militare nel North Carolina. Dieci anni dopo i numeri di Blackwater sono impressionanti: 20 000 soldati, una trentina di aerei, elicotteri, una divisione d’inteligence privata, la base militare privata più grande del pianeta, a Moyock (NC), 7.000 acri dove ogni anno vengono addestrati circa 35.000 operatori di sicurezza.
Sin dalla fondazione della ditta, Prince stabilì importanti contatti e collaborazioni con politici e avvocati conservatori di peso (Kenneth Starr, Fred Fielding). Uomini della Cia o del Pentagono diventarono membri operativi della compagnia. Ad esempio Joseph Schmitz, ex ispettore generale del Pentagono, che si unì al Prince Group (consociata di Blackwater) in qualità di consigliere interno della compagnia stessa. Furono questi importanti legami che permisero l’impressionante crescita della Blackwater e il suo massiccio utilizzo nei conflitti in Afghanistan e Iraq.
L’affinità ideologica tra Prince e l’amministrazione Bush fu altrettanto determinante. Prince, da sempre noto per le sue visioni fondamentaliste e suprematiste del cristianesimo, si garantì sin dall’inizio l’appoggio incondizionato della Casa Bianca e dei neocon americani. Questo legame è testimoniato dalla convergenza tra la Blackwater e il PNAC (Progetto per un nuovo secolo americano), una fondazione senza scopo di lucro fondata nel 1996 da Cheney e Rumsfeld con l’obiettivo di difendere la leadership e i valori americani nel mondo. Un esperto di milizie private, il giornalista investigativo Jeremy Scahill autore del libro “Blackwater: The Rise of the World’s most Powerful Mercenari Arms”, afferma che “Blackwater è la compagnia che incarna maggiormente la privatizzazione del complesso militar-industriale - premessa fondamentale per l'attuazione del Progetto per un Nuovo Secolo Americano e della rivoluzione dei neoconservatori”.
Grazie a contatti e contratti con l’amministrazione Bush e alle due guerre in corso, Blackwater è diventata così una vera e propria potenza militare, economica e politica. Dal punto di vista militare Blackwater continua ad espandere il suo raggio d’azione. Secondo un articolo apparso in novembre sul quotidiano “The Nation”, Blackwater appalta per esempio operazioni di assassinio mirato di leader talebani e membri di Al Qaeda. Da un punto di vista economico non si può che constatare importanti guadagni. Un articolo congiunto di Repubblica e Washington Post indica che “in dieci anni i ricavi ottenuti da Blackwater grazie ad appalti del governo federale sono cresciuti esponenzialmente, passando da meno di 100.000 dollari ai quasi 600 milioni di dollari dello scorso anno”.

Una situazione, quella della Blackwater e delle altre compagnie di sicurezza privata che é forse poco conosciuta e che impone alcune domande fondamentali, sia da un punto di vista etico che da un punto di vista giuridico. Dal 2005 all’aprile del 2007, secondo un indagine del congresso USA sono stati recensiti 195 incidenti, con almeno 16 vittime causate da Blackwater. Nel settembre 2007 vi è stata la strage a Mansour. Come è gestita questa situazione da un punto di vista legislativo? Da quale autorità legale dipendono questi mercenari? L’autorità militare statunitense, la giustizia irachena? Gli agenti privati sono tenuti a rispettare le norme del trattato di Ginevra o rispondono dei loro atti solo ai loro superiori?
Il NYT spiega che il Congresso ha sempre cercato di coprire i crimini degli agenti privati con il diritto americano: nel 2006 il "Military Extraterritorial Juridisction Act” è stato ampliato per coprire anche gli agenti privati operanti all’estero. Tuttavia dopo la strage di Mansour si aprì un indagine contro cinque membri del commando che assassinò i civili iracheni. Dopo mesi d’inchiesta, il 31 dicembre scorso il giudice Ricardo Urbina ha assolto i 5 agenti imputati. Secondo Urbina i magistrati e gli inquirenti che hanno indagato su questa strage hanno “ripetutamente violato i diritti degli indagati” e l’accusa è così caduta: i cinque Blackwater non verranno processati.
La privatizzazione della guerra non può che preoccupare. Come dice Scahill siamo di fronte ad una vera e propria “struttura di potere paramilitare parallela, che agisce indipendentemente dalle decisioni prese ufficialmente da Washington”. Lo stato, unico detentore legittimo della forza, appalta questa legittimità a privati in cerca di profitti individuali, garantendo loro una sorta di immunità politica e giudiziaria che li libera da qualsiasi controllo democratico.
Se da un punto di vista giuridico il governo USA tenta di equiparare gli agenti privati ai soldati veri e propri, ciò non avviene da un punto di vista statistico: i soldati mercenari morti non andranno a gonfiare le statistiche dei militari caduti in Iraq. Inoltre, se vengono ritirati i soldati veri e propri ma si continua ad inviare mercenari a pagamento, l’occupazione militare continua. Cambia solo il modo e il termine. Termini che cambiano anche alla Blackwater: dopo la strage e il danno d’immagine subito, la compagnia di Prince ha cambiato nome. Ora si chiama XE Services LLC. Il più grande esercito privato del pianeta non dispone, tra l’altro, di un sito internet funzionante. Qualcosa da nascondere signor Prince?

Riferimenti bibliografici

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/10/14/nella-piccola-bagdad-di-blackwater-qui-nascono.html

http://www.xecompany.com/

http://www.triplecanopy.com/triplecanopy/en/home/

http://www.dynamiccorp.us/index-2.html

http://www.newamericancentury.org/

http://en.wikipedia.org/wiki/Project_for_the_New_American_Century

http://www.globalsecurity.org/military/library/policy/dod/qdr-2006-report.pdf

http://www.comw.org/qdr/qdr2001.pdf

http://www.nytimes.com/2010/01/11/opinion/11mon1.html

http://documents.nytimes.com/memorandum-of-dismissal-of-charges-against-blackwater-guards#p=1

http://www.dirittiglobali.it/articolo.php?id_news=5902

http://i1.democracynow.org/2009/8/5/in_explosive_allegations_ex_employees_link

http://www.blackwaterwatch.com/

http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/polit_0032-342x_2004_num_69_4_1117?_Prescripts_Search_tabs1=standard&

http://terracinasocialforum.wordpress.com/2009/11/27/la-guerra-segreta-di-blackwater-in-pakistan/

http://www.thenation.com/doc/20091207/scahill

http://www.nuvole.it/index.php?option=com_content&view=article&id=314:warfare-inc-gli-stati-uniti-e-la-privatizzazione-della-guerra&catid=70:numero-35&Itemid=61

venerdì 22 gennaio 2010

Avatar : la rivoluzione dei sensi



di Mattia Pacella

Quando mi hanno chiesto se volevo vedere Avatar, inizialmente ero un po’ scettico. Non perché fossi contrario a film di successo troppo pubblicizzati. Ma la paura di vedere battaglie, guerre e lotte strazianti, concepite forse per pura esaltazione tecnologica del 3-D, non mi pareva affatto essere il mio genere. Se avessi seguito i miei pregiudizi, però, non avrei mai avuto modo di rivoluzionare la mia visione del cinema in generale, e delle storie rappresentate in video, in particolare. Seguendo l’istinto e i consigli entusiasti di critica e amici, mi sono infatti ricreduto. Ed è stata una saggia scelta.

Guardare Avatar non significa solo ridursi ad un mondo parallelo, fatto di riprese “motion capture” e di tecniche tridimensionali. Il tutto dipinto con colori psichedelici e colmo di sensazioni surreali che spingono a spiccare il volo da un momento all’altro. Non significa soltanto seguire una trama in parte prevedibile che contrappone bene e male con un certo cinismo e senso di real-politik, con quel po' di panteismo che fa tanto new age alla moda. Guardare Avatar vuol dire essere coinvolti da un fiume in piena, un fiume di emozioni che cattura mente e corpo, tutto, in ogni singola particella. Toccando sempre tasti emotivi diversi che non si riducono alla mera empatia visuale, ma vanno fino alla presa in considerazione di principi atavici all’uomo. Destinati a ritornare e ad essere decifrati di epoca in epoca. Il 3-D non diviene in questo modo un semplice fine, un mero scopo di propaganda cinematografica, ma un mezzo. Un mezzo che permette di toccare problemi inscindibili dall’uomo, universali, trascendenti. Problemi che assumono nell’opera di Cameron un’attualità profonda, una trasversalità di tematiche capace di superare barriere concettuali, distinzioni tra razze, divisioni tra mondi. Questo grazie all’energia che si sente e che viene raccontata. L’energia si percepisce, a momenti pare persino di toccarla con mano. Tutto è energia nel film, ed essa fluisce di corpo in corpo stabilendo un’armonia degli opposti. Non solo bene e male, guerra e pace, uomo e donna, dolore e felicità, odio e amore, qui tutto è uno. Il legame è in tutto. La dicotomia e la divisione faticano ad essere percepite appieno, e queste, intrecciandosi, formano un tutt’uno omogeneo che rievoca persino il simbolo cinese dello ying e dello yang, dove il nero sta al bianco come il bianco sta al nero, uno all’interno dell’altro. Quasi si volesse riprendere una concezione buddhista del mondo. Un mondo inteso come tutto, come unità della vita dove ogni singolo elemento è collegato alla Madre terra.

Pandora, la Madre terra, anche divinità greca, bellissima prima donna concepita da Zeus per punire l’umanità. È questo il mondo mistico dove vivono i Na’vi, popolo alieno indigeno che si scontra con la bramosia di una spietata multinazionale terrestre che vuole impossessarsi ad ogni costo di un prezioso materiale chiamato “Unobtainium”. I Na’vi, difendendosi, saranno così costretti ad una sacrilega guerra tra civiltà. Solo con l’aiuto di Eywa, la dea Terra appunto, e con la discesa dell’avatar predestinato, Jack Sully, uomo paraplegico che assume sembianze aliene grazie ad un’interfaccia mentale che collega uomo e alieno attraverso i sensi nervosi, il popolo terrestre verrà tragicamente punito. Il finale è forse scontato, ma la visione di questo vaso di Pandora che, rompendosi, sprigiona redenzione e colpe dell’uomo, riempie lo spettatore, sazia quel vuoto che si lascia all’entrata del cinema. Pandora, però, non resta la sola leggenda citata nel film. Le citazioni altisonanti che si susseguono sono infatti molteplici. Lo stesso Avatar, tanto utilizzato nel mondo della “rete” di oggi, da “second life” a “twitter”, ha radici profonde. Il misticismo di questa parola induista che rappresenta la “discesa”, l’“incarnazione”, la “manifestazione” della divinità in sembianze umane, trova qui la sua giusta rappresentazione, in un legame tra vecchio e nuovo, tra modernità e tradizione. Come Krishna, il più importante degli avatar induisti, i Na’vi hanno la pelle blu e nessuno meglio di Jack Sully, personificazione della giustizia divina, può guidare il suo nuovo popolo verso la presa di coscienza dei mali della nostra società. Il connubio modernità e tradizione, tecnologia e natura, resta il filo rosso delle trame di Cameron già dai tempi di “Terminator” e di “Aliens – scontro finale”, come anche di “Titanic”, la macchina più grande realizzata dall’uomo destinata a cadere fatalmente negli abissi. Ma qui il rapporto vecchio e nuovo assume una declinazione ancora più concreta. Lo stesso film diventa un paradosso reale, un ossimoro che vede questo blockbuster, fiore all’occhiello della tecnologia cinematografica, essere il principale critico della stessa tecnologia grazie alla quale è stato realizzato. Come dire : la tecnologia critica la tecnologia. E in questo la schiavitù dell’uomo non è solo una schiavitù delle minoranze, un genocidio etnico, ma si trasforma anche in una schiavitù al materialismo e al consumismo, alle fondamenta della nostra società. Un prodotto di massa che apre spunti attuali su più fronti e che stimola con un velato filo di auto-critica a riflettere su chi siamo e dove stiamo andando. Progressismo e misticismo confluiscono dunque in un'unica direzione che rende intellegibile e diffonde al più vasto pubblico possibile una visione del mondo sì ecologista e alternativa, ma anche una difesa di un equilibrio che sta andando perduto. D’altronde, questa moderna rivisitazione di Pocahontas e di Balla coi lupi, non tocca solo la sensibilità del pubblico di massa americano. Ma spazia ben oltre. Si pensi solo alla censura cinese che dopo poche settimane ha vietato la diffusione nelle sale perché le problematiche affrontate, la segregazione delle minoranze, i genocidi brutali, potevano essere percepite come un parallelismo diretto al problema tibetano. Ed è anche questa la grandezza del racconto, un racconto universale che rende il saccheggio delle risorse e la devastazione della terra non soltanto esclusivi ad un clan, ad una tribù o ad una nazione, ma all’intero pianeta. Non solo, dunque, riferimenti ad indiani sioux e soldati blu in battaglia nel Far West, ma l’incarnazione di tibetani, ceceni, africani, rosarnesi, tutti accomunati e messi sullo stesso piano. Il tutto contornato da momenti di preghiera e devozione collettiva che seguono la devastazione, il dramma, la fatalità. Come fosse il caso dell’immane tragedia accaduta pochi giorni fa ad Haiti. Tutti uniti nella dimensione più profonda che l’uomo riesca a sprigionare : la spiritualità. Un film che mette a nudo, dissimula, e dissacra, cinicamente e romanticamente, una varietà immensa di preconcetti e di problemi del nostro tempo. O forse di tutti i tempi. Insomma, un film dalle mille chiavi di lettura, da cui tanto si può trarre. Poco importa quale scegliere, di certo c’è che dagli errori si può imparare sempre. Io in questo caso ho appreso che non bisogna mai rinchiudersi nei propri pregiudizi. Avete pregiudizi? Non disperatevi, avete ancora l’occasione di rivoluzionare i vostri sensi… e non solo.

Mattia Pacella

mercoledì 20 gennaio 2010

Ma cosa ci rappresenti?

Ebbene, la mia abilità di ricerca in rete lascia alquanto a desiserare. Ringrazio il caro Valde e metto il link del registro degli interessi dei membri del consiglio nazionale e del consiglio degli stati.
Chi é interessato può farci una visitina. È sempre divertente vedere gli interessi e gli hobby di chi ci (vi) rappresentanta politicamente.

http://www.parlament.ch/d/organe-mitglieder/nationalrat/Documents/ra-nr-interessen.pdf


http://www.parlament.ch/d/organe-mitglieder/staenderat/Documents/ra-sr-interessen.pdf


Sfogliando la lista sorge un'ulteriore questione: siamo sicuri che non é stato tralasciato niente?
Come dice Valde, il problema è che non si sa quanto siano obbligati a dichiarare i nostri amici in parlamento. Consigliere nazionale o consigliere agli stati: "che minchia ci rappresenti?"

L'imperialismo degli aiuti!



Fonte: Burki, 24heures del 19.01.2010

sabato 16 gennaio 2010

Trasparenza!



Si sa, i parlamentari svizzeri non sono solamente i rappresentanti del popolo che li ha eletti. Essi sono, anche o soprattutto, i rappresentanti dei più svariati gruppi d’interesse: la lobby della salute, delle banche, delle casse malati, dell’industria militare, di svariate ONG, ecc. Ogni parlamentare ha addirittura il diritto a far autorizzare due membri di lobby a muoversi liberamente dentro il Palazzo. I nomi di questi “ospiti” sono consultabili su un registro cartaceo che non è però pubblicato da nessuna parte.

Recentemente ho provato a fare una piccola ricerca per scoprire quali parlamentari rappresentano quali interessi. Risultato: il nulla. Forse sono io che non sono capace di ricercare in rete, fatto sta che ieri la Commissione delle istituzioni politiche del consiglio nazionale ha stabilito (12 voti a 11) che bisognerà pubblicare su internet quei dati che invano andavo cercando.

Riunitasi a discutere l’iniziativa parlamentare della deputata socialista Edith Graf-Litscher (Tg), la citata Commissione si è espressa a favore di norme più trasparenti: le generalità, i mandati e i datori di lavoro dei lobbisti che hanno accesso al parlamento andranno pubblicati su internet. Ben venga un po’ di trasparenza, ma molto andrebbe ancora fatto: chi finanzia (e quanto) i partiti o le campagne sulle votazioni federali?

martedì 12 gennaio 2010

Arance meccaniche!




Fino a ieri non conoscevo l’esistenza della cittadina calabra di Rosarno. Considerata questa mia ignoranza mi è impossibile soffermarmi a commentare fatti sui quali non dispongo le necessarie conoscenze. La situazione che si è creata in questa periferia dell’umanità, dove 1000 braccia di colore vivono ammucchiate come larve in una ex cartiera dismessa, appare troppo complessa per uno che non la conosce da vicino. Un mix di criminalità organizzata, razzismo, malgoverno, lavoro nero, corruzione, diritti negati, poltica d'immigrazione fallimentare, agricoltura in difficoltà, ecc. Lavoratori immigrati che si ribellano per un briciolo di dignità. Cittadini italiani che si ribellano alla rivolta degli immigrati. Uno Stato assente. La criminalità organizzata che sfrutta e comanda, difende e produce. Il caos, l’Italia nel 2009. Vien da chiedersi: è questa una società?

Sorseggio una spremuta d’arancia e mi sento in colpa della mia cecità. Chissà da dove arriva questo frutto? Da Rosarno o da chissà quale altro lager italiano. Speriamo di no, ma le probabilità sono molte. Perché costano così poco queste cavolo di arance? Come farebbero a essere concorrenziali senza le braccia sfruttate che le raccolgono?

L’industria degli agrumi calabrese appare in difficoltà sui mercati internazionali, e questo malgrado il costo irrisorio della manodopera. Tuttavia il maltempo in Florida, che ha creato ingenti danni agli agrumi, dovrebbe accrescere i prezzi internazionali delle arance. Questo potrebbe favorire la concorenzialità delle arance della Piana di Gioia Tauro. E il mercato globale!

Come farebbe l’agricoltura italiana (e non solo l’agricoltura, e non solo in Italia) a sopravvivere alle sfide di questo mercato senza la manodopera sottopagata? Che ne sarebbe di noi, della nostra economia senza i nostri schiavi, le nostre bestie da soma, i nostri aratri umani?

Questi per 25 euro al giorno raccolgono meccanicamente arance e vivono ammassati in un marcio capannone. L’unica possibilità di far conoscere la loro situazione è la rivolta violenta. Questo popolo di invisibili indispensabili si ribella e tutti ora si scandalizzano. Circa un anno fa è stato pubblicato un libro: « Gli africani salveranno Rosarno. E, probabilmente, anche l’Italia”. Io (purtroppo) non l'ho letto. Nessuno (purtroppo) sembra averlo letto.
Nel 2005 "medici senza frontiere" (si proprio loro, normalmente presenti in Afghanistan o nel Darfour) stilava il primo rapporto sulla situazione venutasi a creare nei campi del sud Italia. Il rapporto s’intitolava: “I frutti dell’ipocrisia. Storia di chi l’agricoltura la fa. Di nascosto.

Rosarno lo conosco da oggi, ma Rosarno è vecchio e Rosarno non è solo. Speriamo si fermi la rivolta, speriamo si fermino le telecamere. Speriamo ritorni l’invisibile. Chiudiamo gli occhi, mettiamo qualche gabinetto chimico che ci pulisca la coscienza. L’importante é mangiare le nostre arance a basso costo, serenamente. Ciechi.


Fonti:

http://www.medicisenzafrontiere.it/Immagini/file/pubblicazioni/RAPPORTO_frutti_ipocrisia.pdf

http://www.newsfood.com/q/aab431f2/rosarno-7-mila-imprese-agricole-in-italia-gestite-da-extracomunitari/

http://filosofoaustroungarico.blogspot.com/2010/01/gli-africani-salveranno-rosarno-mangano.html

http://www.terrelibere.org/arance-amare-a-rosarno-tra-i-braccianti-immigrati

http://scrivolibero.blogspot.com/2009/11/lanima-ai-signori-delle-arance.html

http://fortresseurope.blogspot.com/

giovedì 7 gennaio 2010

La lista di Obama!



Nervi tesi a Washington. A seguito del mancato attentato di Natale, ancora scossi da quello che poteva rivelarsi come una tragica falla del proprio apparato di sicurezza, gli Stati Uniti hanno stabilito nuove norme preventive: bodyscanner, migliore sinergia nei controlli, misure top secret. Oltre a ciò vi è l’aggiornamento della lista di stati pericolosi, sostenitori del terrorismo. I cittadini di questi paesi diretti negli USA dovranno sottoporsi a delle misure supplementari di sicurezza.¨

Ecco la (solita) lista:
Yemen, Somalia, Siria, Sudan, Iran, Pakistan, Libia, ecc. Cuba. Cuba? E che c’entra col terrorismo islamico? Che ci fa l’isola cubana in una lista di 13 paesi islamici accusati - a torto o a ragione io non lo so - di sostenere il terrorismo internazionale? Centra come i cavoli a merenda ma ogni pretesto è buono per punzecchiare l’isola.

Due considerazioni. Primo: i terroristi islamici che sono a Cuba - se di terroristi si tratta - ce li hanno portati proprio loro, gli yenkies, e se ne stanno belli isolati a Guantanamo. Secondo: se dovessimo contare gli atti terroristici – nel senso concreto del termine – compiuti dagli Stati Uniti a Cuba, gli Stati Uniti stessi dovrebbero auto citarsi sulla lista di paesi a rischio. Dalla baia dei porci in poi l’elenco è lungo, non è vero Luis Posada Carriles?

Tutto cambia a Washington e dintorni ma la sinfonia cubana è sempre la medesima. Un son monotono e malinconico. Cuba, strangolata da un embargo illegale, condannato annualmente dall’assemblea delle Nazioni Unite, fa sempre paura al potente vicino. Assurdo. L’ennesima provocazione contro l’ormai cinquantenne Cuba rivoluzionaria (che se ha 50 anni ed è rivoluzionaria è un ossimoro) accusata di dare rifugio a terroristi baschi. Ma che c’entra vien da chiedersi. Baschi? Ma per favore…

Askatasuna!!

sabato 2 gennaio 2010

Un anno di notizie. Buon 2010!



Apro il giornale dopo qualche giorno di assenza dalla civiltà dell’informazione. Vediamo come comincia l’anno con qualche notizia presa da “la Repubblica” del 2 gennaio.

A Milano si ipotizza di dedicare una strada all’ex leader socialista Bettino Craxi. Il sindaco Moratti paragona Craxi a Giordano Bruno: “Il filosofo fu mandato al rogo ma poi gli dedicarono vie e piazze”. Immagino il povero Bruno, bruciato nel 1600 a causa delle sue teorie filosofiche, rivoltarsi nella tomba (già, è stato bruciato, ma è un modo di dire!!) per lo sprezzante paragone. La storia (e la scienza) assolse Giordano, farà lo stesso con Bettino? Dubito sia il caso. Chi non verrà assolta di sicuro sarà Letizia.

Dalla Francia giunge una simpatica notizia d’incoerenza politica. L’UMP, il partito del presidente Sarkozy, ha plagiato una canzone canadese per uno spot elettorale. Il partito, paladino del diritto d’autore, fautore di una “tra le più repressive” leggi contro la violazione del copyright in Internet, dovrà versare 32 500 euro d’indennizzo. Pare inoltre che non sia la prima volta che capiti. I pirati non sempre hanno la bandiera nera col teschio e spesso i più grandi filibustieri sono coloro che si prefiggono di cacciarli.

In Russia la polizia arresta, durante una manifestazione per la libertà d’espressione, Ljudmila Alekseeva, sostenitrice dei diritti umani. Niente di nuovo vien da dire se non che la signora è una fragile nonnina di 82 anni, mito della dissidenza al regime sovietico. La donna gode di un ampio prestigio internazionale tanto che quindici giorni fa è stata insignita di un premio dall’Europarlamento. Resisi conto della gaffe d’immagine, la polizia libera la signora che però non se ne va finché tutti gli altri manifestanti non vengono a loro volta liberati. Tornata a casa Ljudmila riporta l'accaduto sul suo “frequentatissimo” blog, ampliando così le dimensioni della protesta. A fare paura al potere non sono i muscoli, non è la giovinezza. Sono le palle. In questo caso quelle di una fragile (fisicamente) signora di 82 anni.

Nel 2009 il club dei miliardari italiani è diventato più numeroso: da 11 si è passati a 14 membri. Il patrimonio complessivo di questi signori è aumentato di 13 miliardi, il che equivale ad un guadagno medio giornaliero di 2.5 milioni a testa (di cazzo). Il tesoretto azionario del premier Berlusconi è aumentato di un miliardo per un guadagno mensile di 83 milioni. Nuovo entrato nell’esclusivo club il nostro amico Muhammar Geddhafi che grazie ai suoi investimenti di capitale nella banca Unicredit ha aumentato del 82% il proprio gruzzoletto azionario. Che gliene frega a lui del povero Hans Rudolph?

Dopo Google e Yahoo anche la Apple sceglie (??) di inginocchiarsi ai dictatat cinesi. Gli iphone venduti nella terra di Confucio saranno censurati da qualsiasi notizia relativa al Dalai Lama. Impossibile accedere alle raccolte di testi o alle preghiere del leader tibetano (e buddhista).L’intesa tra questi giganti oligopoli americani e il regime cinese fa paura. Pare però che sia solo una questione di rispetto degli usi e costumi locali. “Continuamo a rispettare le leggi locali, non tutte le App sono disponibili in ogni paese”, è in effetti la spiegazione di Apple.

Mi fermo qui e rimpiango Osco. Buon anno a tutti (o quasi)!