venerdì 31 luglio 2009


Consiglio di lettura: “Animal tropical” di Pedro Juan Gutiérrez

Dopo un 2009 piuttosto avaro di letture appassionanti e appassionate, ecco finalmente un libro che ho letto in un fiato, abbandonandomi al piacere di una vera lettura.

Ambientato tra l’Avana e la Svezia, l’autore/protagonista Pedro Juan, ci racconta la sua vita da Animal Tropical, scandita da musica, rum, sigari e sesso con quest’ultimo protagonista indiscusso del romanzo. Le pagine trasudano le vicende sessuali tra Pedro Juan e la sua jinetera Gloria, scandite dal calore dei tropici e dalle abitudini e i ritmi della vita quotidiana della Cuba del dopo periodo éspecial.
Pedro Juan parte poi in Svezia, invitato da un università, per colmare fisicamente l’amore che lo lega ad Aneta. In terra scandinava il protagonista è un animale in gabbia, le differenze tra i due mondi sono troppo evidenti. Pedro Juan cerca di far capire il suo essere animal tropical alla cara amante svedese, che a fatica cerca di assecondarlo liberandosi pian piano dei suoi pudori. Tuttavia il richiamo dell’isola è troppo forte e Pedro Juan ritorna dalla sua amata Gloria e alla sua innata e libera sessualità cubana.

Un libro crudo e esplicito dove la difficile, ma spontanea e colorata, realtà cubana si mischia con la ricca, ma monotona e precisa, vita occidentale. Un libro dove la differenza tra Nord e Sud è esposta nelle pratiche più intime, messe a simboleggiare una differenza culturale che si può appianare ma forse non superare. Un libro inoltre, dove Cuba e la sua realtà vengono descritte, nel bene e nel male, attraverso lo sguardo cinico e realista del protagonista, lontano dal dibattito ideologico che caratterizza qualsiasi discorso relativo all’Isola

Frammenti:

Uno deve conservare il diavolo che si porta dentro. Se sei troppo buono ti schiacciano.
Adesso, fissando il soffitto me ne ricordo: “Se sei troppo buono ti schiacciano”. Proprio così. Mi devo rimettere in sesto e riprendere a essere diabolico come sempre. “Il figlio di puttana che mi porto dentro me si è addormentato, stando in questo paese” ho pensato. “Devo andarmene da qui, e subito. O finirò per rincoglionirmi”. Ho tirato verso di me Agneta e ci siamo stretti l’uno all’altra. Era completamente nuda e calda. Ho provato una piacevole sensazione di benessere. Ho chiuso gli occhi per riaddormentarmi e mi è tornato in mente il Dracula di Gloria. Non devo dimenticarmene più. Non posso permettere che il figlio di puttana si assopisca”.

sabato 25 luglio 2009

Il cibo nell'anno della grande crisi

1 miliardo di affamati, 36 stati dipendenti dall'estero. Concentrazione e finanziarizzazione dell'alimentare peggiorano il bilancio del crack

Pubblicato su sbilanciamoci.info (25.06.2009)

Se il 2008 verrà ricordato per la crisi che ha messo in discussione i principali pilastri sui cui si fondava il sistema finanziario mondiale, non dobbiamo tuttavia dimenticare un’altra crisi che, oltre a quella ambientale, sta colpendo il nostro vulnerabile pianeta: la crisi alimentare. In effetti, nonostante la produzione di cereali sia progredita del 4,9% nel 2008, il 19 giugno la FAO ha affermato che gli affamati nel mondo sono oramai un miliardo e che 36 stati dipendono totalmente dall’aiuto esterno, soprattutto a causa dell’insicurezza dei prezzi locali che restano troppo elevati. Si ha spesso la tendenza a considerare la fame come un fenomeno dovuto principalmente all’aumento della popolazione e alla diminuzione di terre coltivabili dimenticando di esaminare altri importanti fattori, come ad esempio la struttura che regge le sorti dell’agricoltura mondiale. Quest’ultima è contraddistinta da due principali caratteristiche, frutto della stessa logica neoliberale messa ora in discussione: una forte concentrazione industriale e una crescente speculazione finanziaria sulle materie prime agricole. L’obiettivo di questo articolo è quindi quello di analizzare queste due caratteristiche per considerare in maniera più ampia la problematica alimentare e di riflettere sulle conseguenze che l’attuale crisi finanziaria potrebbe avere sulla sicurezza alimentare del pianeta.

Attualmente abbiamo una struttura industriale dell’agricoltura fortemente concentrata e sempre più ricca. Possiamo dividere la filiera agricola in due gruppi controllati ciascuno da un numero sempre minore di multinazionali: il gruppo dell’agro-chimica, che controlla il mercato dei semi e dei prodotti fitosanitari e il gruppo dell’agro-alimentare che controlla i principali mercati delle materie prime agricole. La concentrazione nell’agro-chimica è cominciata quando il settore pubblico ha abbandonato la ricerca agricola ai privati trasformando l’agricoltura in un business. In questo processo di privatizzazione e di concentrazione un ruolo chiave è giocato dalle biotecnologie e dai relativi brevetti. Analizzando la traiettoria delle imprese che dominano l’agrobusiness possiamo in effetti vedere come essa è intimamente legata allo sviluppo di queste nuove tecnologie: esse sono la causa di un cambiamento strategico effettuato in seno a imprese chimiche e farmaceutiche che ha permesso ad una società come Monsanto di trasformare il proprio business dal chimico all’agricolo (o meglio al chimico-agricolo) e a giganti farmaceutici come Novartis e Zeneca di creare Syngenta, la prima multinazionale interamente dedita all’agrobusiness. Prima del 2000 non esisteva una multinazionale di questo tipo, ma il settore agricolo era semmai parte di una multinazionale farmaceutica o chimica oppure faceva capo a ditte di sementi indipendenti e attive a livello regionale. Facendo del binomio tra seme geneticamente modificato e prodotto fitosanitario la sua principale caratteristica, le agrobiotecnologie hanno fatto si che questi due settori, una volta separati e meno concentrati, si riunissero nelle mani di pochi attori economici, pronti a spartirsi gli enormi profitti ipotizzabili. Già nel 2005 sei multinazionali (Syngenta, Bayer Crop Science, Dow Agro Sciences, DuPont CropProtection, Monsanto e BASF) controllavano il 77% di questo mercato (DINHAM B.). In un contesto di mondializzazione dell’agricoltura e controllando il settore delle sementi e dei prodotti fitosanitari, queste poche imprese hanno raggiunto un potere di mercato enorme, capace d’influenzare le dinamiche agricole e alimentari a livello globale.
A discapito della crisi alimentare e di quella finanziaria ecco i risultati economici delle principali multinazionali dell’agrobusiness: i guadagni netti di Monsanto tra agosto 2007 e agosto 2008 sono aumentati del 104% passando dai 993 a 2024 milioni di $, l’esercizio 2008 di Syngenta ha visto aumentare i benefici netti del 38% mentre Pioneer Hi-Bed, il business dei semi di DuPont, comunicava a fine 2007 un aumento del 15% delle vendite.
Caratterizzato da un grande numero di fusioni e acquisizioni e trasformatosi notevolmente in questi ultimi anni, il settore dell’agro-alimentare risulta anch’esso fortemente concentrato. Il commercio e la lavorazione dei cereali e delle oleaginose è controllato, a livello globale, da quattro ditte: ADM, Bunge, Cargill e Dreyfus. In generale possiamo affermare che quasi tutti i mercati di materie prime di prima necessità sono caratterizzati da oligopoli. Tendenza che con l’attuale crisi potrebbe addirittura rafforzarsi. Il CEO di Cargill affermava in agosto che grazie alla crisi dei mercati si potrà approfittare d’importanti possibilità d’acquisizioni (REUTERS). Appare quindi ovvio chiedersi in che misura questi giganti approfittano del loro monopolio in un mercato che predicano libero ma che in realtà non lo è. Nel luglio scorso alcune sedi europee della Cargill e della Bunge sono state perquisite per conto della Commissione europea la quale sospettava che i due colossi stavano violando le regole di mercato approfittando della loro posizione di monopolio (REUTERS). Controllando il mercato delle granaglie in che modo questi gruppi ne determinano le riserve (reali e virtuali) disponibili e di conseguenza i prezzi? In che modo quindi sono responsabili della crisi alimentare? Prezzi dei cerali al rialzo e conseguente crisi alimentare che sembrano avere un effetto determinante sui profitti delle multinazionali agro-alimentari. Nel 2008 la Cargill ha aumentato del 69% i propri guadagni rispetto all’anno precedente. ADM oltre ad ostentare la sua potenza intitolando il rapporto annuale 2008 “le monde ne peut pas se passer de nous”, ha aumentato la propria cifra d’affari netta del 59% arrivando a 7 miliardi di $. Bunge nel 2008 ha aumentato i guadagni netti da 778 a 1064 miliardi di $. I risultati economici delle multinazionali dell’agro-chimica e dell’agro-alimentare in un contesto di crisi alimentare mostrano i vincitori della mondializzazione dell’agricoltura. Semi e materie prime agricole sono diventati incredibili mezzi di profitto e le imprese che li controllano sembrano non risentire affatto dei nefasti venti che soffiano sull’economia mondiale. Al contrario la crisi sembra favorire la concentrazione industriale e il monopolio di pochi grandi giganti sull’agricoltura rischiando così di aggravare la situazione dei piccoli agricoltori dei paesi poveri, principali vittime della crisi alimentare.

Se da un lato abbiamo una filiera agro-alimentare sempre più concentrata dall’altro non dobbiamo dimenticare la seconda principale caratteristica dell’agricoltura di inizio millennio: la sua eccessiva finanziarizzazione. L’attuale crisi ci sta aprendo gli occhi su una finanza speculativa che come un palloncino di elio se ne sta volando via dall’economia reale. Vediamo cosa sta succedendo ai palloncini di materie prime che quotidianamente vengono gonfiati da traders in cerca d’affari in un mercato sempre più deregolamentato e creativo. Come detto, anche nel settore agricolo si sta perdendo il nesso tra il reale e il virtuale, tra la merce agricola in quanto tale, che dovrebbe essere il nutrimento degli umani, e la merce agricola virtuale, veicolo di speculazioni, di guadagni, di perdite e di rischi. Il Chicago board of trade (CBOT), la più grande piazza commerciale di stoccaggio dei cereali ed il mercato dei derivati più grande del mondo, è il luogo simbolo di questo rapporto sempre più stretto tra alimentazione e finanza. E qui che vengono stabiliti i prezzi delle materie prime agricole. Se fino a qualche decennio fa il trading su quest’ultime era di esclusiva proprietà di agricoltori e di imprenditori agricoli, oggi qualsiasi speculatore può vendere o comprare cereali sottoforma di strumenti finanziari derivati. Negli ultimi anni la borsa cerealicola di Chicago è diventata un enorme casinò dove chiunque abbia qualche risparmio da investire può fare la sua puntata. Si è infatti assistito ad un vero e proprio boom di fondi speculativi sulle materie prime agricole, che promettono grandi e sicuri guadagni ed una certa diversificazione dei portafogli d’investimento. I cereali, cosi come gli altri beni necessari alla sopravvivenza dell’uomo e al suo benessere, possono essere scambiati fisicamente oppure possono essere mezzo di operazioni speculative nel mercato delle opzioni e dei futures. Come lo dice la parola future tutto ruota attorno al prezzo che una determinata materia prima potrà avere in futuro. Se si ipotizza che il mais incrementerà il suo valore un traders acquisterà un contratto future e, al contrario, lo dovrà vendere se ne ipotizza un ribasso. Comprando una future sul mais si impegna ad acquistare, ad una certa data, un certo quantitativo di mais ad un prezzo preciso e lo stesso se vende. Così un traders si alza la mattina, compra qualche tonnellata di mais e dopo il caffé e la sigaretta delle undici se ne disfa speculando sul prezzo che nel frattempo è salito. Insomma, un grande casinò dove puntare sui prezzi degli alimenti sperando di guadagnarci qualcosa. Se si perde, il giorno dopo si riprova. Un casinò dove ciò che importa non sono le carte, ma i guadagni che queste carte possono creare. La maggioranza dei contratti a termine in effetti non porta a delle consegne effettive. Ciò significa che gli speculatori non hanno interesse nella merce in sé, ma nel guadagno effettuabile con essa prevedendo il suo andamento dei prezzi. E di speculatori, alla ricerca di nuovi mercati favorevoli, data la crisi dei mutui immobiliari e la crisi finanziaria generale, ce ne sono in giro molti. Sarebbe interessante sapere in che misura banche e istituti di investimento cercheranno di recuperare le ingenti perdite dovute alla bolla dei subprime investendo nel magico casinò delle materie prime.
Quel che si può affermare è che più o meno dal 2004 si assiste ad un sempre maggior interesse per i fondi speculativi agricoli. Tendenza che, come lo mostrano i dati disponibili sul sito internet del CBOT, è continuata nel turbolento 2008: da gennaio a novembre il volume medio giornaliero di future sui cereali e sulle oleaginose alla CBOT di Chicago era di 597 980 contratti (+ 12% rispetto al 2007). Per ciò che riguarda le opzioni medie giornaliere hanno raggiunto 151 609 contratti, il che significa un incremento del 30.92% rispetto al 2007. Ci appare discutibile che in un contesto di crisi alimentare le materie prime vengono scambiate alla borsa di Chicago così come si scambiano altri titoli finanziari, venendo cosi banalizzate a puro mezzo di guadagno. In effetti, tra un caffé e una sigaretta, tra un milione guadagnato sul grano ed un altro perso sulla soia questi movimenti speculativi influenzano le transazioni reali di materie prime. Le imprese che controllano il commercio e la lavorazione di queste materie prime sembrano beneficiare non poco da queste fluttuazioni, al contrario di coloro che a causa di queste variazioni al cibo non possono accedere. La crisi finanziaria potrebbe portare più speculatori verso la finanza agricola, meno rischiosa di quella immobiliare, e quindi potrebbe contribuire a creare un’instabilità sui prezzi delle derrate alimentari contribuendo così al persistere dell’insicurezza alimentare. Certo, le cause della crisi alimentare vanno ricercate anche altrove (biocarburanti?) ma è indubbio che anche la deregolamentazione che permette di speculare sulle materie prime abbia un ruolo importante.

La problematica alimentare è molto complessa, ci sembrava tuttavia interessante mostrare come essa è direttamente legata al sistema finanziario che permette di considerare le materie prime come qualsiasi titolo azionario e ad una struttura industriale sempre più concentrata. In un anno definito terribile dal punto di vista economico è interessante notare come le multinazionali dell’alimentazione e dell’agricoltura continuino ad aumentare fortemente le proprie vendite e i propri profitti. Anzi, la crisi finanziaria favorisce la concentrazione industriale e l’afflusso di speculatori verso il trading agricolo, contribuendo alla situazione di controllo delle imprese e della finanza sulle sorti dell’alimentazione delle popolazioni più svantaggiate. Questo contrasto tra chi con le sementi, col cibo e con tutte le relative speculazioni finanziarie accumula fortune rivoltanti e chi a queste sementi e a questo cibo non può accedervi ci sembra agghiacciante. Un esempio della contraddizione su cui si basa l’economia umana dominante: il perseguire il proprio benessere non sempre crea il benessere generale. La ricchezza dei giganti (non solo quelli agricoli) è troppo influente e controlla gli uomini e le regole di un sistema economico internazionale figlio degli interessi particolari di potenze particolari e dei loro privilegi. A noi non resta che salvare un poco le nostre coscienze con comportamenti individuali e collettivi eticamente corretti. Chi tira i fili continuerà a tirarli e le buone azioni non saranno altro che pochi chicchi in un granaio mondiale già geneticamente contaminato.

FFF, giugno 2008


Riferimenti bibliografici

ADM: “Le monde ne peut pas se passere de nous“, ADM Annual Report 2008
BUNGE : “Annual Report 2008”
CARGILL: “ 2008 Annual Report Summary“
CME GROUP: “A Global Trading Sumary of Grain Oilseed ND Livestock Markets“, Monthly Agricultural Update, December 2008, http://www.cbot.com/cbot/docs/87809.pdf
DINHAM B.: “Corporations and Pesticides” , in PRETTY J.: “The pesticide detox: toward a more sustainable agriculture”, Earthscan 2005
DUPONT: “DuPont agricolture & nutrition on track for strong 2007” Comunicato stampa del 3 dicembre 2007
FAO: “The State of Food and Agricolture 2008. Biofuels: prospects, risk and opportunities”:
FRANCHINI F., « Les agrobiotechnologies : une histoire des stratégies industrielles », Mémoire de licence e science politique, Université de Lausanne, 2007
GREEN R. e HERVÉ S.: “IP- Traceability and Grains Traiders: ADM, Bunge, Cargill and Dreyfus”, INRA-LORIA, 2006
MONSANTO: “Annual Report 2008”
REUTERS: „EU raids Cargill, Bunge in food-price proob“, Comunicato stampa del 10 luglio 2008
REUTERS: « Cargill sees oportunities in struggling economy », Comunicato stampa del 20 agosto 2008
SYNGENTA: “Annual Review 2008”

Paranoie di crisi

Paranoie di crisi.

“Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo. Bene, ora si divora da solo” , Charles Bukowski

Valla a capire tu la crisi, questa parola che ultimamente è presente in ogni dibattito che riguardi un qualsivoglia fenomeno. Ne accenna al supermercato la panettiera, il parrucchiere pure ne parla, ne discuto al bar con gli amici e ognuno ne da una libera e interessante interpretazione. Diventa quasi un comodo palliativo al vuoto delle discussioni come quando si parla di meteorologia – “Bello oggi? – “Hai sentito ? Arriva la crisi…”– Te la spalmano sul pane quotidiano tutti media, quelli che sono al potere e quelli che non lo sono, ognuno a tirare questa parola come acqua verso il proprio mulino d’idee. Ognuno più o meno abile a mischiarla e macinarla a proprio uso e consumo, pronta a vendertela come farina del proprio sacco, o appunto del proprio mulino. Uso e abuso di una parola, pretesto giustificativo per disoccupazione, inflazione, stagflazione, recessione, depressione e chi più ne ha più ne metta. Le colpe dei marasmi contemporanei sono date alla crisi e a nessuno viene in mente di pensare se è colpa dei marasmi contemporanei se c’è la crisi. E una questione di punti di vista, quasi d’analisi logica dove la differenza sta nel capire se la crisi é il soggetto o il complemento di causa: la crisi è la causa dei problemi o i problemi sono causa della crisi?
Il Fondo Monetario internazionale, lodevole istituzione internazionale che negli ultimi 50 anni ha portato benessere, stabilità e eguaglianza globale grazie a consigli illuminati e a soldi disinteressatamente prestati a chi ne era più bisognoso, ritiene che ”il sistema finanziario globale sia sull’orlo di un collasso sistemico” . Non poteva accorgersene prima? Con tutta l’intellighenzia, vera o presunta, con tutti i quaraquaqua d’esperti e contro esperti, possibile che nessuno abbia gettato un allarme cercando di far capire al mondo la banale legge fisica che a furia di gonfiare un palloncino prima o poi scoppia? E se qualcuno questo allarme l’avesse lanciato (ed è stato lanciato!) era da considerare così poco autorevole o tanto sovversivo da non essere ascoltato? Ma chi avrebbe dovuto ascoltarlo? E se poi non fosse tutto così semplice, non solo questione di palloni gonfiati e di bolle di sapone?
Dato per scontato che qualcosa è veramente in crisi, che c’è un domino di banche e gruppi finanziari che crolla, di bolle che esplodono e di aria fritta che brucia, mi domando se la crisi di cui tanto si parla non sia utilizzata per creare ad arte una crisi di panico per giustificare la sottomissione di tutti noi (e dei nostri stati) alla finanza. Una dimostrazione mediatica di come, pur essendone estranei o esclusi, la nostra quotidianità sia dipendente e succube dei capricci finanziari e dei rischi presi dai nuovi principi della filigrana virtuale. E allora eccoci tutti dei nuovi analisti di mercati finanziari, costretti nostro malgrado a interpretare questo collasso senza averne le necessarie competenze perché il gioco è diventato troppo complicato.
In effetti, non conosco nulla di meccanismi economici, di finanza, di quello che uno può fare o non fare con i propri soldi (- “Bravo pirla” - ), oltre a non averne tanti, non mi va di partecipare ad un gioco che considero sporco e pericoloso. Mi chiedo solo, ingenuamente, se certe cose sono normali e saranno aggiustate o se rimarrà tutto come prima e cioè un mondo diviso tra passivi e attivi, chi lo prende e chi lo da. Crisi o non crisi, la sostanza cambierà? Le cause del collasso saranno individuate e aggiustate, o, come diceva un vecchio gattopardo, si cambierà tutto per non cambiare niente?
Ecco allora qualche possibile causa del problema, non certo frutto della mia idea e di un mio studio, ma che, scovati qua e là, considero interessanti se vogliamo analizzare in profondità la malattia. C’è chi dice che il motoscafo della finanza ha perso di vista la zattera dell’economia reale. Ma a furia di scappare, questo motoscafo è finito in altomare, in una tempesta vorace, la peggior da 80 anni a questa parte, dicono. Mi chiedo se è normale causa di questa tempesta che il valore di un anno di commercio globale é inferiore alla somma di denaro che circola sui mercati valutari in soli 5 giorni . Forse è un dato insignificante, che ne so io. Forse è il commercio che non tira abbastanza. Non è abbastanza libero. Se la zattera è lenta non è colpa del veloce motoscafo, ma di chi la rema. O semmai del mare. Trovandosi alla deriva vi sono comunque delle isole strategiche dove poter attraccare e mettersi al riparo. In effetti, dopo che nel 1860 Baudelaire creò i paradisi artificiali alla fine del novecento altri paradisi vennero creati: i paradisi fiscali. Tralasciando la mia preferenza per i primi, anche qui mi chiedo se è tutto normale. In questi piccoli territori di terre emerse grandi più o meno come il mio letto che non dovrebbero valere niente, meno del 3% del PIL mondiale (un indice fantastico che mostra la felicità della gente del mondo e che anche se cresce ma cresce meno, è un brutto segno) transita il 50% del commercio globale , salvando cosi la baracca dalla tempesta. Logico. Per fortuna che ci sono queste ancore di salvezza. Per fortuna di chi pero? Che storie sono che mi tiro e anche questo, forse, poi non c’entra. E colpa mia che non capisco.
C’è chi dice che il problema sono i super bonus dei super manager delle super imprese. Sicuramente questo è un bersaglio verso il quale è facilissimo sparare. Certo che se nel 1970 i compensi medi annui per i 100 più grandi CEO erano circa 39 volte la paga di un lavoratore medio mentre alla fine degli anni `90 la media dei compensi dei 100 top manager è di 1000 volte il livello di un lavoratore medio qualcosa che non va ci deve pur essere. Oltre che rispetto ai lavoratori è pure a danno degli azionisti (che in teoria sono i proprietari) che queste remunerazioni esorbitanti si riflettono: sembrerebbe che le imprese non controllano nemmeno più loro stesse dato che si è perso il nesso tra chi comanda dirige, guadagna e chi possiede. Ma questo è un altro discorso.
Nella vita un individuo non si incazzerà mai se non si incazza quando una faccia viscida guadagna 20 milioni di CHF per aver fatto fare alla banca risultati trimestrali superlativi e dopo tre anni la stessa banca si becca 60 miliardi $ dallo Stato per non morire. A titolo di esempio 60 miliardi di $ sono più “than five times the amount that all Western European governments have committed, above and beyond development aid, in climate finance for developing countries” . Diciamo che la crisi climatica non é percepita nella stessa maniera che la crisi finanziaria. Però è forse troppo facile, anche se logico, prendersela adesso per il problema dei supersalari. Forse una questione etica bisognava già porsela qualche hanno fa, quando le cose andavano bene, ma non era giusto comunque. E che parlo a fare di questione etica, che c’entra? Chi fa dell’uguaglianza un proprio cavallo di battaglia politico non doveva indignarsi più forte prima che si indignassero tutti? Adesso c’è pure chi ne approfitta per vantarsi di filantropia restituendo milioni di qua e di là avendo il culo parato da milioni di qua e di là. Briciole.
Certo che una banca che inciucia nella maggioranza di scambi economici svizzeri non può essere lasciata naufragare. Salviamola (nell’isola salvataggio delle Cayman però, dove le acque sono calme, per ritornare ai paradisi fiscali!), ma ricerchiamone le cause non solo nei capitani che ubriachi di dollari la guidavano alla deriva.
Quello che non mi è chiaro (si fa per dire!) è l’apparizione improvvisa di denaro nelle casse di Stati a cui era stato imposta l’avarizia. E perché l’ago della bussola va sempre verso nord che i soldi vanno sempre a chi ce li ha o c’è un’altra spiegazione? E solo ora me ne accorgo? Ma poi che cosa centra? No perché, non eravamo in crisi e non c’erano soldi, ora che lo siamo pare ce ne siano da tappare tutti i buchi dei privilegi. Questione di priorità. Se per 20 anni mi hanno detto che non c’erano soldi per gli anziani, per i giovani, per gli invalidi, per le istituzioni sociali e per l’aiuto allo sviluppo ero semplicemente io (o noi) il coglione che ci credeva. La colpa è sempre mia? E ora se dico che si socializzano le perdite e si privatizzano i profitti, sono un qualunquista o è sì una frase banale, ma drammaticamente reale? Negli ultimi 15-20 anni vari paesi e regioni (Argentina, Sud-Est asiatico, Giappone, Russia, Brasile) hanno conosciuto crisi finanziare da cui nessuno ha tratto nessun insegnamento (almeno sembrerebbe). Allora come oggi per uscire da queste crisi lo Stato ci ha messo (o rimesso) del suo. A proposito di queste crisi, nel 2006 Andriani scriveva: “[…] mentre si diffondevano nel mondo dottrine e politiche volte a ridurre il ruolo dello stato, il salvataggio, ad opera dello stato, dei sistemi bancari con il denaro dei contribuenti ha raggiunto a livello mondiale dimensioni straordinarie” . Ma allora, dopo questo effervescente autunno, che dimensioni hanno preso questi aiuti? La crisi (o le crisi) possono quindi apparire, ai miei ingenui occhi, come il pretesto per andare al pronto soccorso. Ma dato che l’opinione pubblica è bombardata da notizie sulla crisi, tutto appare giustificato e necessario. Insomma, si guarisce la crisi con medicamenti potenti ma non si danno gli anticorpi necessari per non permettere il riaffiorarsi della malattia. E rieccoci di nuovo al punto di partenza, la crisi, le cause, i modi per risolverla. Noi che possiamo fare, se non subire quello che verrà deciso per mantenere tutto così com’è?
Parlarne è quasi inutile e deprimente, anche se sicuramente interessante. Capirne qualcosa veramente impossibile. Certamente è il raggiungimento dell’obiettivo del creare panico, insicurezza e confusione (una certa sintonia con il terrorismo, gli stranieri, la droga?). Quindi, e di conseguenza, a furia di parlarne e di leggerne, nella crisi mi ci hanno messo veramente: sono in crisi con me stesso, in crisi con la mia capacità di capire, in crisi sul mio modo di viver che fa il gioco della crisi pur non giocandolo. In crisi per un futuro incerto, anche se incerto lo era allo stesso. Paranoie di crisi. La crisi della crisi nella crisi. Vedremo. Tuttavia, non è certo perché la economia è in crisi che vibro e vivo, che piango o che rido, che sono nervoso e impulsivo. Se cade una lacrima non sarà certo la crisi la causa. Tolti i panni degli esperti di finanza, che un po’ goffamente portavamo per cercare di capire una crisi che non capivamo, continueremo ad amare e a odiare, a lavorare per bere, per andare allo stadio o per guardare l’isola dei famosi. Continueremo a morire in strada e sul lavoro, continueremo a spararci, a prostituirci, a tradirci e a masturbarci. Continueremo ad avere paura del diverso, del nuovo, della legge, del futuro e dell’inferno. Così, come è imposto. Se l’economia è in crisi, non sarà che la goccia in un vaso che sta gia trabordando. E tra le lacrime (di coccodrillo)…..non ci resta che ridere. E io rido.

FFF, 1.12.3008