venerdì 22 gennaio 2010

Avatar : la rivoluzione dei sensi



di Mattia Pacella

Quando mi hanno chiesto se volevo vedere Avatar, inizialmente ero un po’ scettico. Non perché fossi contrario a film di successo troppo pubblicizzati. Ma la paura di vedere battaglie, guerre e lotte strazianti, concepite forse per pura esaltazione tecnologica del 3-D, non mi pareva affatto essere il mio genere. Se avessi seguito i miei pregiudizi, però, non avrei mai avuto modo di rivoluzionare la mia visione del cinema in generale, e delle storie rappresentate in video, in particolare. Seguendo l’istinto e i consigli entusiasti di critica e amici, mi sono infatti ricreduto. Ed è stata una saggia scelta.

Guardare Avatar non significa solo ridursi ad un mondo parallelo, fatto di riprese “motion capture” e di tecniche tridimensionali. Il tutto dipinto con colori psichedelici e colmo di sensazioni surreali che spingono a spiccare il volo da un momento all’altro. Non significa soltanto seguire una trama in parte prevedibile che contrappone bene e male con un certo cinismo e senso di real-politik, con quel po' di panteismo che fa tanto new age alla moda. Guardare Avatar vuol dire essere coinvolti da un fiume in piena, un fiume di emozioni che cattura mente e corpo, tutto, in ogni singola particella. Toccando sempre tasti emotivi diversi che non si riducono alla mera empatia visuale, ma vanno fino alla presa in considerazione di principi atavici all’uomo. Destinati a ritornare e ad essere decifrati di epoca in epoca. Il 3-D non diviene in questo modo un semplice fine, un mero scopo di propaganda cinematografica, ma un mezzo. Un mezzo che permette di toccare problemi inscindibili dall’uomo, universali, trascendenti. Problemi che assumono nell’opera di Cameron un’attualità profonda, una trasversalità di tematiche capace di superare barriere concettuali, distinzioni tra razze, divisioni tra mondi. Questo grazie all’energia che si sente e che viene raccontata. L’energia si percepisce, a momenti pare persino di toccarla con mano. Tutto è energia nel film, ed essa fluisce di corpo in corpo stabilendo un’armonia degli opposti. Non solo bene e male, guerra e pace, uomo e donna, dolore e felicità, odio e amore, qui tutto è uno. Il legame è in tutto. La dicotomia e la divisione faticano ad essere percepite appieno, e queste, intrecciandosi, formano un tutt’uno omogeneo che rievoca persino il simbolo cinese dello ying e dello yang, dove il nero sta al bianco come il bianco sta al nero, uno all’interno dell’altro. Quasi si volesse riprendere una concezione buddhista del mondo. Un mondo inteso come tutto, come unità della vita dove ogni singolo elemento è collegato alla Madre terra.

Pandora, la Madre terra, anche divinità greca, bellissima prima donna concepita da Zeus per punire l’umanità. È questo il mondo mistico dove vivono i Na’vi, popolo alieno indigeno che si scontra con la bramosia di una spietata multinazionale terrestre che vuole impossessarsi ad ogni costo di un prezioso materiale chiamato “Unobtainium”. I Na’vi, difendendosi, saranno così costretti ad una sacrilega guerra tra civiltà. Solo con l’aiuto di Eywa, la dea Terra appunto, e con la discesa dell’avatar predestinato, Jack Sully, uomo paraplegico che assume sembianze aliene grazie ad un’interfaccia mentale che collega uomo e alieno attraverso i sensi nervosi, il popolo terrestre verrà tragicamente punito. Il finale è forse scontato, ma la visione di questo vaso di Pandora che, rompendosi, sprigiona redenzione e colpe dell’uomo, riempie lo spettatore, sazia quel vuoto che si lascia all’entrata del cinema. Pandora, però, non resta la sola leggenda citata nel film. Le citazioni altisonanti che si susseguono sono infatti molteplici. Lo stesso Avatar, tanto utilizzato nel mondo della “rete” di oggi, da “second life” a “twitter”, ha radici profonde. Il misticismo di questa parola induista che rappresenta la “discesa”, l’“incarnazione”, la “manifestazione” della divinità in sembianze umane, trova qui la sua giusta rappresentazione, in un legame tra vecchio e nuovo, tra modernità e tradizione. Come Krishna, il più importante degli avatar induisti, i Na’vi hanno la pelle blu e nessuno meglio di Jack Sully, personificazione della giustizia divina, può guidare il suo nuovo popolo verso la presa di coscienza dei mali della nostra società. Il connubio modernità e tradizione, tecnologia e natura, resta il filo rosso delle trame di Cameron già dai tempi di “Terminator” e di “Aliens – scontro finale”, come anche di “Titanic”, la macchina più grande realizzata dall’uomo destinata a cadere fatalmente negli abissi. Ma qui il rapporto vecchio e nuovo assume una declinazione ancora più concreta. Lo stesso film diventa un paradosso reale, un ossimoro che vede questo blockbuster, fiore all’occhiello della tecnologia cinematografica, essere il principale critico della stessa tecnologia grazie alla quale è stato realizzato. Come dire : la tecnologia critica la tecnologia. E in questo la schiavitù dell’uomo non è solo una schiavitù delle minoranze, un genocidio etnico, ma si trasforma anche in una schiavitù al materialismo e al consumismo, alle fondamenta della nostra società. Un prodotto di massa che apre spunti attuali su più fronti e che stimola con un velato filo di auto-critica a riflettere su chi siamo e dove stiamo andando. Progressismo e misticismo confluiscono dunque in un'unica direzione che rende intellegibile e diffonde al più vasto pubblico possibile una visione del mondo sì ecologista e alternativa, ma anche una difesa di un equilibrio che sta andando perduto. D’altronde, questa moderna rivisitazione di Pocahontas e di Balla coi lupi, non tocca solo la sensibilità del pubblico di massa americano. Ma spazia ben oltre. Si pensi solo alla censura cinese che dopo poche settimane ha vietato la diffusione nelle sale perché le problematiche affrontate, la segregazione delle minoranze, i genocidi brutali, potevano essere percepite come un parallelismo diretto al problema tibetano. Ed è anche questa la grandezza del racconto, un racconto universale che rende il saccheggio delle risorse e la devastazione della terra non soltanto esclusivi ad un clan, ad una tribù o ad una nazione, ma all’intero pianeta. Non solo, dunque, riferimenti ad indiani sioux e soldati blu in battaglia nel Far West, ma l’incarnazione di tibetani, ceceni, africani, rosarnesi, tutti accomunati e messi sullo stesso piano. Il tutto contornato da momenti di preghiera e devozione collettiva che seguono la devastazione, il dramma, la fatalità. Come fosse il caso dell’immane tragedia accaduta pochi giorni fa ad Haiti. Tutti uniti nella dimensione più profonda che l’uomo riesca a sprigionare : la spiritualità. Un film che mette a nudo, dissimula, e dissacra, cinicamente e romanticamente, una varietà immensa di preconcetti e di problemi del nostro tempo. O forse di tutti i tempi. Insomma, un film dalle mille chiavi di lettura, da cui tanto si può trarre. Poco importa quale scegliere, di certo c’è che dagli errori si può imparare sempre. Io in questo caso ho appreso che non bisogna mai rinchiudersi nei propri pregiudizi. Avete pregiudizi? Non disperatevi, avete ancora l’occasione di rivoluzionare i vostri sensi… e non solo.

Mattia Pacella

1 commento:

  1. Bell'articolo.. Bravo.. E il film é assolutamente qualcosa di unico ed inimmaginabile! I colori sono la cosa che più mi ha impressionato. Ci vorrei vivere su quel pianeta! =)

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