lunedì 14 dicembre 2009

Da Seattle a Copenaghen, tra OMC e ONU, tra commercio e ambiente !



In questi giorni giorni, a inizio dicembre a Ginevra poi a Copenaghen, si svolgono due importanti incontri internazionali: la settima conferenza ministeriale dell’OMC e la Conferenza della Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Questi due eventi cadono in un anniversario particolare: i dieci anni del vertice di Seattle.
Seattle fu un punto di svolta importante. Da un lato un fallimento politico: le fratture tra USA e Europa, tra Nord e Sud misero in evidenza le diverse concezioni di intendere la globalizzazione economica. Dall’altro le proteste che caratterizzarono le giornate dell’incontro ministeriale, contribuirono ad arricchire il dibattito sulla globalizzazione economica. Da allora fu chiaro che le questioni commerciali non avrebbero più potuto essere distinte da quelle ambientali e sociali. Malgrado fondamentalmente si occupino delle stesse tematiche (economia e quindi ambiente; ambiente e quindi economia), il sistema dell’OMC e quello dell’ONU (a cui si riferisce il vertice di Copenaghen) sono due regimi internazionali diversi. Da Seattle a Copenaghen, tra salvaguardia dell’ambiente e libero commercio, tra OMC e ONU, qualche considerazione sulla governance internazionale.

Seattle: un fallimento politico
Dal 30 novembre al 4 dicembre 1999 si tenne a Seattle la terza conferenza ministeriale dell’OMC. Quattro anni dopo la sua creazione, tremila delegati dei 135 paesi allora membri dell’organizzazione si trovarono nella città del grunge per avviare un nuovo ciclo di negoziazioni: il Millenium Round. L’obiettivo dell’incontro era quello di proseguire la strada della liberalizzazione del commercio mondiale stabilita dall’accordo di Marakkesh, che di fatto istituì l’OMC.
In gioco vi era la volontà dei paesi ricchi di ridisegnare i rapporti commerciali internazionali, stabilendo nuove regole che liberalizzassero gli scambi, soprattutto per ciò che concerne i prodotti agricoli e i servizi. Questa visione del commercio internazionale si scontrò fortemente con quella preconizzata dagli stati del Sud del mondo, stufi di soccombere ai dictat nord americani ed europei.
Da un punto di vista politico la conferenza di Seattle si chiuse con un fallimento. Il messaggio secondo cui la liberalizzazione degli scambi avrebbe permesso lo sviluppo dei paesi più poveri non passò. Per la prima volta i paesi del Sud, compatti, usarono a proprio vantaggio la regola del consenso. Questa prevede che si arrivi ad una decisione consensuale che non sia solo l’espressione della maggioranza, ma che integri anche i pareri della minoranza. In pratica, nessun stato membro dell’OMC deve considerare una decisione talmente inaccettabile da obiettarvi, come fu invece il caso a Seattle .
Inoltre la dura disputa tra Unione Europea e Stati Uniti sulla questione degli organismi geneticamente modificati e la spinosa problematica dei prodotti agricoli, contribuirono al fallimento del vertice. Europa contro USA, Sud contro Nord, ognuno con le proprie visioni, i propri interessi da difendere, il vertice di Seattle si tramutò in un tutti contro tutti e si chiuse con un nulla di fatto.

Le proteste: il popolo di Seattle
Il fallimento del vertice é dovuto principalmente alle debolezze della stessa OMC. Tuttavia la conferenza ministeriale fece fiasco anche a causa delle manifestazioni di protesta di decine di migliaia di persone, appartenenti a organizzazioni non governative, sindacati e movimenti cittadini, accorse a Seattle per protestare contro gli estremismi liberisti dell’OMC. Cittadini che sentivano di perdere progressivamente il proprio potere di controllo politico, a vantaggio di un mondo economico e finanziario che imponeva la regola dell’assenza di regole, sfruttava persone e distruggeva l’ambiente. Era un periodo, la fine degli anni 90, caratterizzato dalla caduta delle barriere economiche, dal rafforzamento del potere delle imprese multinazionali, dalla creazione di nuovi soggetti politici internazionali (OMC, UE, ecc.), dalla presa di coscienza sulle problematiche ambientali e dalla crisi dello stato sociale. Cinquantamila persone, chi dice centomila, si ritrovarono in una protesta collettiva fino a qualche mese prima impensabile, la più grande manifestazione di protesta su suolo statunitense dai tempi della guerra in Vietnam.
Da allora nacque la definizione di “popolo di Seattle”. Un variegato ed eterogeneo movimento internazionale, composto da studenti, lavoratori, ambientalisti, anarchici, cattolici, ecc., chiamato spesso, e a torto, “movimento antiglobalizzazione”. Malgrado le differenti anime presenti nel movimento esso ha effettivamente come obiettivo comune la battaglia contro la globalizzazione, ma quella dei mercati imposta dall’OMC. Una globalizzazione che non tiene conto di problematiche ambientali e sociali, una globalizzazione con molti vinti e pochi vincitori, soprattutto nei paesi poveri.
Da allora, il popolo di Seattle si ritrova così ad ogni incontro tra i grandi del mondo (G8, incontri del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e dell’OMC, WEF, ecc.). Purtroppo, spesso e volentieri, le manifestazioni pacifiche sono state funestate da episodi violenti, causati da una minoranza furiosa di manifestanti (o di infiltrati?), che hanno distolto gli occhi dell’opinione pubblica dai messaggi portati avanti dalla maggioranza dei manifestanti (Genova 2001; Evian 2003).
Malgrado ciò, Seattle è ricordata perché fu “la scintilla che fece dilagare ovunque il movimento contro le multinazionali” . Personaggi allora sconosciuti ai più, come il contadino francese José Bové, la scrittrice e saggista canadese Naomi Klein, l’ONG Attac, ecc., diventano i simboli di questa battaglia internazionale contro le regole neoliberiste dell’OMC, accusate di favorire le multinazionali occidentali a discapito della salvaguardia dell’ambiente e dello sviluppo dei paesi del sud del mondo. Argomenti come il commercio locale, la tassazione delle transazioni finanziarie, il potere delle multinazionali, i brevetti e le biotecnologie, lo stesso termine globalizzazione diventano, dopo Seattle, parte importante dei discorsi e dell’agenda politica internazionale.

La governance mondiale tra commercio e ambiente
Il vertice di Seattle e le proteste che ne conseguirono misero in evidenza due importanti fattori. Il primo riguardava l’inadeguatezza e la legittimità dei negoziati internazionali in seno all’OMC. Il secondo metteva in rilievo il fatto che la liberalizzazione economica debba tener conto di altri fattori come quello della salvaguardia dell’ambiente e dello sviluppo dei paesi più poveri.
Dopo il vertice statunitense, la conferenza ministeriale di Cancun del 2003 si chiuse pure con un fallimento, mentre il round negoziale lanciato a Doha nel novembre 2001 presentò fasi assai conflittuali senza che, ancora oggi, nonostante i ripetuti incontri, si sia arrivati ad un accordo finale.
Da Seattle in poi si impone chiaramente la questione di una migliore governance mondiale degli scambi commerciali. Dieci anni dopo quel vertice la questione dell’efficacia e della legittimità del OMC è sempre presente. Su iniziativa della Svizzera e di altri pesi in questi giorni a Ginevra, oltre ad affrontare il ruolo dell’OMC nell’attuale contesto economico, si discuterà anche sull’istituzione in seno all’organizzazione di “una piattaforma di discussione che dovrà servire a migliorarne il funzionamento, l’efficienza e la trasparenza” .
Le proteste di Seattle misero in evidenza il fatto che la globalizzazione economica imposta dalle regole dell’OMC è causa dei gravi danni ambientali e sociali di cui siamo ogni giorno più consapevoli. Si è arrivati ad una maggior consapevolezza che i fenomeni economici e le principali problematiche che toccano il pianeta - il surriscaldamento climatico, la crisi alimentare, la necessità di trovare fonti energetiche alternative - sono profondamente collegate tra loro. Come indicato dal comunicato stampa della delegazione svizzera che parteciperà alla conferenza di Ginevra, si impone “una maggiore coerenza tra la politica commerciale, ambientale e sociale e una migliore collaborazione tra le organizzazioni internazionali specializzate in questi settori politici” . Vedremo se ci sarà coerenza: la conferenza ministeriale dell’OMC cade in effetti pochi giorni prima dell’atteso vertice delle Nazioni Unite sul clima di Copenaghen, destinato a sostituire il protocollo di Kyoto. Secondo le parole del ministro Leuthard, se la Svizzera si adopererà “per far sì che l'OMC assuma un ruolo costruttivo nella lotta contro il riscaldamento climatico” , questo deve inevitabilmente passare da una maggiore collaborazione tra le varie istanze internazionali.
Il problema rimane a questo punto la differenza tra il regime dell’OMC e quello dell’ONU. Gli accordi presi in seno all’OMC sono vincolanti. Non esiste nessun altra istituzione internazionale che dispone di mezzi giuridici e giudiziari così vincolanti da imporre la realizzazione dei suoi scopi. Uno stato può ricorrere contro un altro se considera che questo violi gli accordi stabiliti. Un organo di risoluzione dei differendi (ORD) giudicherà il caso e potrà imporre delle sanzioni, anche economiche, alla parte in causa. Ciò non avviene nei trattati dell’ONU, dove le parti si impegnano a rispettare gli accordi stabiliti senza essere vincolati da sanzioni economiche. A differenza degli accordi presi in seno all’OMC, ciò che verrà deciso a Copenaghen non avrà effetti così vincolanti. Come spiega De Senarclens, professore di relazioni internazionali all’università di Losanna: “in linea di principio, la protezione dell’ambiente, il rispetto dei diritti umani e dei diritti sociali, gli obiettivi di sviluppo sostenibile, sono subordinati al rispetto delle obbligazioni prese in seno all’OMC” .
E un dato di fatto che la situazione climatica attuale sia dovuta al nostro sistema economico ed è favorita dalle regole liberiste dell’OMC. La crisi climatica si scontra quindi con le regole del mercato, per cui è difficile capire come delle pratiche economiche più favorevoli all’ambiente, ad esempio lo sviluppo del commercio e dell’agricoltura locale, si possano conciliare con le regole dell’OMC che puntano esclusivamente sul mercato globale. Ci si deve quindi chiedere se l’OMC abbia il diritto ad un tale potere nel gestire delle problematiche da cui dipende il futuro del pianeta.


1999-2009: un esame di maturità
Sono passati dieci anni da Seattle. La storia è cambiata, l’economia ha subito la più grave crisi degli ultimi 80 anni, l’ambiente sta sempre peggio e la politica se ne deve occupare sempre di più. Comunque vada a Copenaghen si potrà constatare se gli organismi internazionali hanno passato l’esame di maturità. Da un lato se è cambiato qualcosa all’interno degli organismi internazionali, dall’altro si potrà anche vedere come è maturato quel popolo di Seattle che anche in Danimarca farà sentire la propria voce.
Per il movimento di protesta l’esame di maturità avverrà se da un lato riuscirà ad isolare la minoranza violenta, senza che ciò implichi l’abbandono di tecniche di disobbedienza civile e se d’altro canto, come afferma Naomi Klein, si riuscirà da un punto di vista politico a “tenere conto degli errori commessi” . Il movimento è stato spesso criticato per il fatto che al lungo elenco di critiche alla globalizzazione non hanno mai fatto seguito delle alternative concrete. A Copenaghen, focalizzandosi esclusivamente sulla tematica ambientale, la coalizione dei movimenti scaturiti da Seattle ha la possibilità “di imbastire un coerente modus operandi d’insieme sulle cause e sui rimedi che coinvolge in teoria ogni questione riguardante il pianeta” . L’obiettivo è quello di inserire nel protocollo quelle proposte concrete che il movimento propone da anni: un’agricoltura locale e sostenibile, dei progetti di impianti energetici di piccole dimensioni e decentralizzati, il rispetto per il diritto alla terra delle popolazioni indigene, il finanziamento di queste trasformazioni con tasse sulle transazioni finanziarie e la cancellazione dei debiti dei paesi poveri.
Per quanto riguarda le negoziazioni politiche l’attenzione, anche mediatica, sarà puntata verso il vertice di Copenaghen. L’incontro di Ginevra è una conferenza di routine, per cui non ci si deve aspettare niente di eclatante. Per il vertice danese invece l’attesa è enorme . Vedremo se si assisterà, ancora una volta, ad uno scontro tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo che si vogliono sviluppare, vedremo se Stati Uniti, UE e Cina, i grandi inquinatori del pianeta, saranno in grado di scendere a compromessi. Vedremo se si riuscirà a ripensare ad un economia che tenga maggiormente in considerazione le problematiche ambientali, creando una sorta di “giustizia climatica” che incentivi per esempio le energie alternative e penalizzi l’uso dei combustibili fossili. Ciò dimostrerebbe una maggior maturità della politica internazionale. Un passo avanti rispetto a Seattle, ma anche rispetto a Kyoto. Non solo parole, ma anche azione concrete. Vedremo se, a differenza di Seattle (e a differenza di un Doha Round ancora bloccato), a Copenaghen i vari interessi mondiali in gioco riusciranno ad accordarsi per stabilire un protocollo climatico all’altezza della drammatica situazione che si è costretti ad affrontare. E una corsa contro il tempo: urge un protocollo forte, firmato, ratificato e rispettato da tutti.
Tuttavia anche se l’eventuale Protocollo di Copenaghen sarà un accordo importante, decisivo, bisognerà aspettare e sperare che questo sia rispettato. L’impegno preso nella capitale danese sarà, comunque vada, succube del regime dell’OMC che è più coercitivo e molto meno focalizzato sulle conseguenze ambientali delle attività economiche transnazionali. In ultima analisi, a mio avviso, il problema fondamentale resta la disparità tra questi due regimi internazionali. Questioni di priorità: commercio e ambiente o ambiente e commercio? E questo il dilemma.

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