lunedì 3 agosto 2009

La maschera dell'etica

Quando le pratiche etiche e sociali delle imprese sono solo una maschera per giustificare i propri prodotti e invadere i mercati. L’esempio dell’industria agrochimica e degli organismi geneticamente modificati.



Il liberalismo selvaggio, caratteristico degli ultimi decenni, ammetteva cinicamente che un’impresa non ha dovere alcuno verso la società, se non quello di utilizzare le proprie risorse nel modo più ottimale possibile, alla ricerca del massimo profitto. Ecco quindi, che nel nome della libertà d’impresa, i bambini cuciono palloni, le acque e l’aria vengono inquinate, gli uomini politici corrotti, i personaggi scomodi eliminati, ecc.. A causa dei molti scandali scoppiati in questi ultimi anni, l’opinione pubblica è sempre più attenta a giudicare negativamente queste pratiche e a penalizzare le imprese che peggio si comportano da un punto di vista etico. In questo contesto è sempre più di moda il concetto di responsabilità sociale (Corporate Social Responsability, CSR), il quale pretende di integrare nella strategia dell’impresa non solo risultati economici ma anche preoccupazione di natura etica. Profitto e sostenibilità, due concetti fino a poco tempo fa inconciliabili, sembrano dunque intrattenere delle relazioni sempre più intime: le imprese sembrano aver capito che non devono tener conto della loro attività ai soli azionisti ma alla società intera. Seppur questa presa di coscienza non può che esser accolta in maniera positiva, è opportuno verificare ogni singolo caso: essa è in effetti legata ad una promozione dell’immagine della ditta più che ad una sincera e disinteressata presa di coscienza. In questo senso le pratiche di CSR sono una sorta di veicolo pubblicitario eticamente corretto, delle “misure cosmetiche” (Etwareea). Molte imprese non sono repentinamente diventate più buone, più brave e più caritatevoli, esse hanno semplicemente indossato la maschera dell’etica per giustificare le proprie azioni di fronte ad un’opinione pubblica diventata più attenta. Tramite le pratiche di CSR e un discorso etico, molte multinazionali tentano di pulirsi la coscienza continuando a dettare le regole e i prodotti (a volte molto discutibili) da commercializzare per massimizzare i loro profitti. Attraverso l’esempio delle multinazionali agrochimiche, produttrici di organismi geneticamente modificati (OGM), l’obiettivo di questo breve articolo è di rendere attenti sulle pratiche di CSR e sul discorso etico proposto dalle grandi imprese. In effetti, dopo le critiche che hanno toccato la produzione di OGM alla fine degli anni ’90, i giganti del settore, girando il discorso a proprio favore e promovendo codici etici, fondazioni e programmi nei paesi poveri, hanno tentato di giustificare e diffondere i loro prodotti sottolineandone il contributo per le sorti dell’umanità. Contributi ancora una volta smentiti dai dati.

Quando nel 1999 Monsanto annuncia la propria intenzione di acquistare la ditta di sementi Delta&PineLand (D&PL), depositaria del cosiddetto brevetto Terminator, una particolare tecnologia che rende le piante sterili e incapace di generare semi, la protesta anti OGM raggiunge il suo apice. Il gruppo RAFI lancia una campagna globale, “Ban Terminator”, e le pressioni dell’opinione pubblica mettono a dura prova la nascente industria delle biotecnologie. Queste pressioni, che in Europa hanno contribuito alla creazione di una legislazione poco favorevole, hanno in effetti costretto molte imprese, in quegli anni attive nel settore delle scienze della vita, a sbarazzarsi della proprie divisioni agricole per non compromettere la loro immagine di fronte all’opinione pubblica. Cosi, Novartis e AstraZeneca decidono di focalizzarsi sul settore farmaceutico sgombrandosi delle loro divisioni agricole, fondendole e creando Syngenta, la prima multinazionale dedicata interamente all’agrobusiness. Aventis vende anch’essa la propria divisione agrochimica a Bayer. Monsanto si separa dalla multinazionale farmaceutica Pharmacia & Upjohn con la quale aveva fusionato solo un paio d’anni prima. Oltre a ragioni di mercato, queste scorporazioni dei settori agricoli testimoniano la volontà di non voler compromettere l’attività degli altri settori (farmaceutico soprattutto) a causa delle ferventi polemiche che toccarono gli OGM agricoli e delle difficoltà legislative che ne sono conseguite. Alla fine degli anni ’90, il futuro di questo commercio sembrava quindi in grave pericolo. Un rapporto della Deutsche Bank titolava GM are dead, facendo intendere la fine commerciale di questi prodotti a causa della demonizzazione crescente degli OGM e della conseguente perdita di investitori. Nei primi mesi del 1999 Monsanto, divenuta a causa delle semenze Terminator una delle multinazionali più criticate del mondo, aveva perso il 20% del proprio valore azionario, dimostrando lo scetticismo degli investitori verso la strategia della ditta (Meldolesi). A questo punto l’impresa di St. Louis, che fino ad allora portava avanti una strategia piuttosto aggressiva verso i propri oppositori, decide di addolcire la propria posizione. Il CEO Robert Shapiro scrive una lettera pubblica al direttore della fondazione Rockefeller nella quale si afferma la volontà della ditta di abbandonare per il momento lo sviluppo di sementi Terminator e la rinuncia ad acquistare D&PL. Il significato di questa marcia indietro è chiaro: il gigante della manipolazione genetica in agricoltura è costretto a trattare con i suoi oppositori, come è dimostrato da un “dibattito pubblico storico” svolto nell’ottobre del 1999 tra Shapiro e Lord Melchett di Greenpeace (Meldolesi).
A partire da questo momento, Monsanto e i giganti dell’agrochimica cambiano strategia e, calando la maschera dell’etica, si profilano come Zorri moderni il cui obiettivo è quello di sfamare gli ultimi della terra. Avendo investito delle somme di denaro esorbitanti nello sviluppo di OGM, le imprese non potevano rendere vani tali investimenti a causa delle pressioni dell’opinione pubblica. Per riuscire nell’obiettivo di diffondere i prodotti agrobiotecnologici nel mondo, le imprese decidono di mettere in atto una strategia di comunicazione portata a mostrare il contributo e i benefici portati dalla loro attività e dai loro nuovi prodotti nella risoluzione delle problematiche alimentari che colpiscono il pianeta. Per prima cosa, le imprese stabiliscono i propri programmi di CSR proponendo dei codici di condotta e delle carte etiche dove elencano il proprio impegno alla trasparenza, al dialogo, alla divisione dei benefici e promovendo progetti umanitari e fondazioni filantropiche. Il filo conduttore di tutto ciò è un discorso indirizzato a promuovere le loro tecnologie genetiche, a venderle come mezzi indispensabili nella risoluzione dei principali problemi che attanagliano l’umanità, come le problematiche alimentari nei paesi poveri e l’abuso della chimica nell’agricoltura. Ecco quindi, per esempio, nella pagina web di Monsanto dedicata a la CSR: “Con lo sviluppo delle moderne pratiche agricole e delle colture ad alto rendimento, stiamo aiutando i contadini del mondo intero a creare un futuro migliore per i bisogni umani, l’ambiente e le economie locali. Incrementando la produttività agricola, i contadini potranno produrre più cibo, fuel e fibbre sul medesimo territorio dove prima si produceva meno, aiutando l’agricoltura a soddisfare i bisogni futuri dell’umanità. Inoltre, l’aumento della produttività permetterà ai contadini di produrre di più con lo stesso o con un minor utilizzo di energia e di pesticidi.” (Monsanto)
Anche Syngenta cerca di fare passare questo messaggio quanto al suo ruolo decisivo per la sorte dell’agricoltura, dell’alimentazione e dell’ambiente: “Syngenta è guidata dalla convinzione che la creazione di valore dipende dall’integrazione di successo di performance economiche, sociali e ambientali. Syngenta si prefigge di promuovere e mantenere degli elevati standard di responsabilità sociale dell’impresa ovunque nel mondo, in un settore industriale che è essenziale per l’agricoltura e la produzione di cibo globale.” (Syngenta)
L’aumento della popolazione e la diminuzione di terre coltivabili é l’argomento di promozione preferito dalle imprese: “I nostri prodotti innovativi nella protezione delle culture e nelle sementi sono un contributo essenziale per garantire sufficientemente cibo e fibre alla popolazione mondiale, la quale sta crescendo da 6.5 miliardi di persone oggi a un prevedibile 9.4 miliardi nei prossimi 25 anni. Per nutrire questo numero di persone, con lo stesso territorio agricolo dedicato al cibori oggi, bisognerà aumentare di almeno il 50% il rendimento di un terreno agricolo.” (Syngenta)
Ecco quindi che le pratiche di CSR fanno parte di un discorso e di una strategia volta a mostrare come l’attività dell’impresa e la sostenibilità dell’agricoltura vadano nella stessa direzione e sono quindi perfettamente compatibili: “La Responsabilità Sociale è parte integrante di ciò che facciamo. La nostra attività dà un contributo positivo alla società, aiutando i contadini a raggiungere importanti obiettivi globali. Sviluppando prodotti innovativi e lavorando con i contadini stessi per garantire un uso appropriato di questi prodotti, stiamo contribuendo alla sostenibilità dell’agricoltura.” (Syngenta)
Il progetto di fare accettare le biotecnologie mostrandone i benefici é sostenuto anche dalla creazione di organi di gestione dell’informazione e di promozione delle agrobiotecnologie, anch’essi mascherati sotto una maschera umanitaria e filantropica. Ne è un esempio, l’International Service for the Acquisition of Agri-Biotech Applications (ISAAA), finanziato tra gli altri da Monsanto e Bayer Crop Science, il quale si prefigge di diffondere “i vantaggi delle biotecnologie agricole per gli agricoltori poveri nei paesi in via di sviluppo” (ISAAA). Questi organismi, cosi come le fondazioni che fanno referenza alle stesse imprese come la Syngenta Foundation for Sustainable Agriculture o la Monsanto Found, sono dei cavalli di Troia che aiutano a diffondere le biotecnologie agricole grazie ad un discorso filantropico e apocalittico secondo il quale solo gli OGM saranno in grado di risolvere le problematiche alimentari del pianeta. Le imprese si ergono quindi a paladini della giustizia, attori che spinti da sincere preoccupazioni etiche combattono per un mondo migliore, dove nessuno soffre la fame.

Così, dopo aver rischiato di scomparire una decina di anni fa, l’industria agrobiotecnologica si profila più forte che mai. Nel 1996 la superficie agricola coltivata con OGM era di 1.66 milioni di ettari, nel 2004 a 77.5 milioni e nel 2008 si è issata 125 milioni. In 12 anni gli OGM coltivati nel mondo si sono moltiplicati per 75 (ISAAA). Analizzando i profitti di Monsanto e Syngenta, le sole multinazionali focalizzate esclusivamente sull’agricoltura, notiamo come la loro situazione finanziaria sia ottima: tra il 2004 e il 2008 Monsanto ha raddoppiato le sue vendite. Dal 2004 i profitti netti sono aumentati in maniera impressionante: + 293% nel 2004, -4% nel 2005 e poi +170% nel 2006, + 44% nel 2007 e + 104% nel 2008 (Monsanto). Syngenta ha aumentato i profitti netti del 124% nel 2004, del 24% nel 2005, del 13% nel 2006 del 27% nel 2007 e del 38% nel 2008. In questo 5 anni le vendite sono aumentate del 37% (Syngenta).
L’inondazione dei mercati di prodotti agricoli geneticamente modificati e l’attività industriale portata avanti da Monsanto e Syngenta è stata così giustificata da un discorso che concede a queste tecnologie la licenza a operare. Attraverso pratiche di CSR, l’industria cerca di mostrare il suo ruolo sociale in quanto vettore principale di benessere, presente e futuro. Seguendo il principio del capitalismo secondo il quale la ricerca del benessere individuale (massimizzazione dei profitti) porta ad un benessere collettivo, le pratiche di CSR cercano di mostrare che il benessere dell’impresa e quello della società in generale (delle popolazioni, dell’ambiente, ecc.) sono compatibili. Mettendo l’accento sul loro ruolo di salvatori dell’umanità, indispensabili nella risoluzione delle problematiche alimentari e ambientali legate all’agricoltura, queste imprese sono state abili a girare il discorso a proprio favore: “chi è contro di noi è contro l’umanità e il suo diritto ad alimentarsi”.
Tuttavia, i dati mostrano chiaramente come le pratiche di CSR e il discorso etico siano solo una maschera per giustificare l’invasione degli OGM e i profitti delle imprese. Non bisogna essere degli esperti per avere dubbi di fronte al discorso proposto dall’industria e dai propri organi di propaganda, essendo le contraddizione tra questo discorso e alcuni dati numerici talmente eclatanti. Come possono queste multinazionali giustificare che l’agricoltura genetica risolverà le problematiche alimentari, quando la superficie di OGM nel mondo è coperta da sole 4 culture: 55% di soia, il 30% da mais, il 12 da cotone e il 5% da colza? Questi dati, che ci sono forniti dalla stessa ISAAA, dimostrano che la totalità delle culture OGM non ha niente a che vedere con la risoluzione delle problematiche alimentari. A meno che l’umanità non si nutra esclusivamente di soia o cotone. Come può Monsanto dirci che salverà il mondo dalla fame quando l’81% delle sue vendite e l’83% dei suoi profitti nella sua divisione Seeds and Genomics dipendono dal solo commercio di soia, mais e cotone? Evidentemente gli OGM a cultura intensiva, come mais e soia, garantiscono importanti guadagni alle imprese, che cercano cosi di legittimarli parlando di un pianeta sovrappopolato dove si soffre la fame.
Un’altro discorso portato avanti dalle multinazionali agrochimiche per giustificare da un punto di vista etico il loro operare è che, grazie agli OGM, si diminuirà l’utilizzo della chimica nell’agricoltura: “Attraverso l’aumento dell’utilizzo di semenze ibride e della biotecnologia, i contadini stanno raggiungendo l’obiettivo di produrre di più con meno utilizzo di trattori e pesticidi. […] Riducendo l’impronta (footprint) dell’agricoltura, possiamo aiutare a mitigare l’impatto umano sull’ambiente. […] Dal 1996, i contadini hanno tagliato il loro uso di pesticidi di almeno mezzo miliardo di libbre, grazie agli organismi geneticamente modificati.” (Monsanto)
Con che coraggio le principali ditte agrochimiche possono proporre un tale discorso non é dato a sapere. Le vendite nel settore Crop Protection di Syngenta sono aumentate del 22% nel 2008, quelle del settore Agricultural Productivity di Monsanto del 48%. Le venite di Roundup, l’erbicida più diffuso al mondo e abbinato alle sementi geneticamente modificate, sono aumentate del 59% mentre i profitti generati da questo erbicida sono aumentati del 131% sempre nel solo 2008. Delle multinazionali che fondano i loro profitti sulla vendita di erbicidi e pesticidi possono convincerci che lo sviluppo dell’agricoltura genetica porterà ad una diminuzione di tali prodotti?
Questi esempi ci sembrano inconciliabili col discorso proposto dall’industria, focalizzato sulla risoluzione delle problematiche alimentari e sulla diminuzione di pesticidi e erbicidi. Cosi gli OGM e l’attività delle multinazionali agrochimiche sono giustificati da un discorso etico che, oltre ad un forte potere politico e di mercato, ha permesso l’invasione dei terreni agricoli con prodotti geneticamente modificati, rendendo questo processo irreversibile.

In questo periodo di crisi, il sistema capitalista cerca di giustificarsi vestendo gli abiti della morale e dell’etica, come dimostrato dai recenti propositi scaturiti al G8 o dall’enciclica papale. L’esempio degli OGM e dell’industria agricola ci insegna quindi a diffidare dal presunto buonismo e dal repentino filantropismo delle multinazionali e dal loro discorso, allo stesso tempo misericordioso e apocalittico. L’etica diventa una maschera, una risorsa da utilizzare anch’essa nella maniera più efficace per massimizzare i profitti, giustificandone l’azione e cercando di pulirsi la coscienza di fronte all’opinione pubblica. Le pratiche etiche sono sventolate per mostrarsi migliori dei propri concorrenti, in una battaglia pubblicitaria per ostentare l’impresa più buona. Stiamo quindi attenti a questi nuovi Zorri industriali che giustificano l’invasione dei mercati autoproclamandosi salvatori dell’umanità. I dati dimostrano che sono solo i loro profitti a beneficiarne mentre le problematiche che si prefiggono di risolvere non fanno che peggiorare.

FFF, luglio 2008

Riferimenti bibliografici

ETWAREEA R., Le capitalisme face à l’éthique et à la responsabilità, Le Temps 20.6.2009
FRANCHINI F., Les agrobiotechnologies : une histoire des stratégies industrielles, Mémoire de licence e science politique, 2007
MELDOLESI A., Organismi geneticamente modificati. Storia di un dibattito truccato. Einaudi, 2001
MONSANTO, Growht for a better World, 2007 Pledge Report
MONSANTO, Annual Report, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008
SHAPIRO R., Open letter from Monsanto CEO Robert Shapiro to Rockfeller Foundation Gordon Conway and Other, l4.10.1999
SINAI A., Comment Monsanto vend les OGM, Le monde diplomatique, Juillet 2001
SYNGENTA, Annual Report, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008
SYNGENTA, Syngenta Annual Review 2008
SYNGENTA, Stewardship and Sustainable Agriculture: making it work, 2006

http://www.isaa.org
http://www.isaaa.org/resources/publications/briefs/39/highlights/default.html
http://www.monsanto.com
http://www.monsantofund.com
http://www.syngenta.com
http://www.syngentafoundation.org

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