Mandela, Eastwood e l’invincibile forza dello sport
di Mattia Pacella
Il perdono. È proprio da qui che passa l’identità di una nazione. La forza che questo principio sacro sprigiona libera l’anima, purifica lo spirito, permette all’uomo di migliorare il proprio destino e quello di un intero paese. Insomma, rende invincibili. “Invictus” appunto. È così che Clint Eastwood nella sua ultima opera decide di rappresentare Nelson Mandela, Madiba per gli uomini del suo clan allargato. La persona che dopo ventisei anni di prigionia è riuscita nell’impresa di unificare l’identità nazionale del popolo sudafricano anche con la forza dello sport, con la forza del rugby. Laddove la razza divide, lo sport unisce.
Con la semplicità di un aneddoto, con la singolarità di una vicenda, il momento storico raccontato dal ex-pistolero western trova in questa pellicola il suo giusto equilibro, la sua posizione naturale, spontanea, quasi necessaria rispetto alla stretta attualità. Soprattutto alla vigilia di un evento sportivo internazionale tanto importante come la prima Coppa del Mondo di calcio che si terrà su suolo africano il prossimo giugno. Carica tanto di aspettative quanto di interrogativi e timori.
Sono storie quelle che Eastwood racconta, da Flags of Our Father a Lettere di Iwo Jiwa, fino a Gran Torino e Changeling. Storie di uomini, di individui, distanti da una visione strettamente normativa e romanzesca che indica il mondo come dovrebbe essere, ma piuttosto definisce il mondo come è, ieri come oggi. Storie che permettono di passare dalla sfumatura del dettaglio alla grandezza dell’evento, dalla quotidianità della vita alle difficoltà che in essa sono connaturate. Senza effetti pomposi, senza concessioni alla spettacolarizzazione. Come dice Roberto Saviano : “Clint non sbaglia un colpo”. E qui non si tratta di un colpo a salve, bensì di una pallottola che trafigge lo spettatore di ogni razza e religione, e arriva diretta a toccare ciò che di più sacro esista nell’uomo: la libertà. E Saviano, il significato di libertà, lo conosce bene, tanto quanto la sua scorta.
Sta proprio qui la grandezza dell’autore, girare grandi film pensando in piccolo. Infatti, le sfide di un presidente passano anche dalla naturalezza di vicende comuni, quotidiane, normali, soprattutto all’occhio di uno spettatore disattento (il furgoncino del giornalaio, l’aereo di linea, il ragazzino sospetto). Ma incommensurabili e profondamente azzeccate per l’esempio che vogliono dare. Non soltanto neri che amano il calcio e odiano il rugby perché sport degli Afrikaner bianchi, simbolo dell’apartheid. Un emblema di segregazione tanto odiato da spingere persino a tifare ogni squadra che potesse battere gli stessi Springboks, le antilopi giallo-verdi del Sud Africa.
Se si guarda più in là, si percepisce anche la difficile coesione tra razze che si traduce allo stesso modo nella tensione delle due anime della sicurezza presidenziale. Da un lato i neri, scorta fidata di Mandela, e dall’altro il corpo di sicurezza presidenziale del vecchio regime, composto esclusivamente da bianchi. Entrambi costretti a collaborare l’uno con l’altro per la protezione e la tutela dell’uomo politico, per volere stesso del presidente. Tensioni che Mandela estinguerà con il perdono e la generosità, sorprendendo. “Il sorriso! In pubblico Madiba vuole sempre il sorriso sulla nostra bocca, qualsiasi cosa succeda”, dice un addetto della scorta. È anche così che si crea la coesione. E Mandela lo sa bene. Capisce sin da subito che la sua immagine pubblica è un’arma efficace, che l’unificazione passa anche da questi piccoli fatti. Ed è qui che si concretizza il perdono verso l’altro, verso chi l’ha costretto all’isolamento per anni. Un perdono che deve essere ampliato a tutta una nazione. Con il sorriso.
Nella sua genialità e lungimiranza politica, il presidente – interpretato da uno eccelso Morgan Freeman – intuisce che per creare un’identità popolare, una coesione nazionale, lo sport della minoranza bianca deve essere apprezzato dalla maggioranza nera, lui che questa minoranza l’ha per tanto tempo studiata. Da un lato le tradizioni e usanze dell’élite economica e militare bianca e dall’altro la sete di vendetta e di rivincita della massa nera oppressa per troppo tempo. "Il calcio è uno sport da gentiluomini giocato da selvaggi, il rugby è uno sport da selvaggi giocato da gentiluomini", questo è il detto che si vuole estirpare.
Lui, Mandela, che fino a poco prima il rugby lo detestava e in cella lo scherniva tanto da far innervosire il suo secondino. Ora sa che i tempi sono maturi, il pensiero è volto al futuro, a una nuova nazione. Affidarsi nelle mani del capitano della nazionale di Rugby, François Pieenar – un abile e mai eccessivo Matt Damon, rinvigorito di qualche chilo per la parte – diventa dunque un’abile scelta. Una strategia politica lungimirante e caparbia. Tanto da andare contro le scelte del partito, persino contro le opinioni di chi l’aveva votato. Uno stratagemma a scopo politico per creare consenso, certo, ma anche una scelta opinata fatta con coraggio di leader, con dovizia di responsabilità. I mondiali di rugby diventano così la sfida politica più importante. Più che una narrazione, qui si assiste ad un vero e proprio trattato sociologico degno dei politologi più autorevoli. Il vecchio Clint non sbaglia un colpo. E anche certi politici che oggigiorno si presentano su palchi e palchetti di vari talk-show e varietà televisivi avrebbero da imparare.
L’incontro tra il capitano e il presidente assume forme epiche. Un rispetto reciproco, un coinvolgimento a volte sospettoso, ma cordiale, onesto. Mandela vuole la vittoria, Pieenar non può assicurargliela. Una squadra sfibrata che nessun critico dà come favorita. Ma la rinascita parte dal profondo. Dall’anima. Dai ghetti di Soweto, baraccopoli preclusa ai bianchi, sino alla cella dove per 26 anni Mandela è stato prigioniero. Una vittoria progressiva che parte da lontano, dunque, scalfita in un processo di crescita collettivo non solo di squadra, ma di una nazione intera.
Il finale ce lo si attende. Ma assicuro che assistere alla partita finale contro i favoriti rugbisti maori della Nuova Zelanda è come essere catapultati in una battaglia d’altri tempi. Fisica, maschia, ma sempre onesta, tanto quanto il codice deontologico di uno sport leale e rispettoso come il rugby. Le immagini sono mozzafiato, la fotografia che cattura gli attimi, i battiti del cuore, i ruggiti, lo sforzo, i tacchetti sull’erba, sono struggenti, appassionanti. Si sentono le ossa che scricchiolano, i muscoli che si tendono. Dal cinema si esce sudati, persino con la percezione di avere contusioni sulle spalle. Ma si esce con il sorriso, e la felicità di chi prima di noi ha realizzato un ideale, un sogno. Di chi è il padrone del proprio destino, il capitano della propria anima. Bravo Mandela, non sbagli un colpo!
Mattia Pacella
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