L'ora dell'eresia!
martedì 28 febbraio 2012
Cleptocratistan!
lunedì 20 febbraio 2012
Russia, Svizzera, materie prime e trasparenza
La Svizzera è diventata il terreno ideale degli interessi russi in Occidente. La Confederazione è la prima destinazione del denaro trasferito dai cittadini russi. Il nostro paese è luogo d’asilo per dei ricchissimi uomini d’affari e per le loro società, a volte direttamente legate al Cremlino. Gli interessi russi in Svizzera sono concentrati nel commercio di materie prime. Vekselberg, Kantor, Animisov, Safin, Timtchenko, Pumpyanskiy, i russi presenti nella classifica dei trecento patrimoni più importanti della Svizzera hanno costruito la loro ricchezza in questo settore, soprattutto nel commercio di metalli e petrolio.
In Russia, le materie prime sono un settore chiave dell’economia. Lo Stato è implicato, sia perché controlla direttamente certe società – il gigante del gas Gazprom e la società petrolifera Rosneft per esempio – sia perché degli oligarchi vicini al potere sono alla testa delle più importanti imprese.
Nel 2005, il giornale Novaïa Gazeta aveva comparato la Russia ad una grande holding guidata direttamente da Putin. Quest’ultimo avrebbe affidato ai suoi fedeli la direzione dei settori più importanti dell’economia russa come l’industria militare e l’estrazione di materie prime. Di fatto, per potere accedere e commercializzare questa manna, è necessario stabilire delle buone relazioni con il Cremlino e i suoi oligarchi.
Nel 2008, un terzo oligarca è entrato in Rusal. Mickael Prokhorov, terza fortuna di Russia, dispone attualmente del 17% del capitale. Grazie a Prokhorov, Rusal (e quindi Glencore) possiede ora più di un quarto del capitale del gigante Norilsk Nickel, primo produttore mondiale di nickel e di palladio e principale produttore d’oro russo. Proprio Mickael Prokhorov ha annunciato in dicembre la sua candidatura al Cremlino. Una candidatura dietro la quale si nasconderebbe però la volontà di Putin di frammentare l’opposizione.
Quest’ultima è sospettata di essere direttamente controllata dal Cremlino. Come é possibile altrimenti che, in soli quindici anni, Gunvor sia potuta diventare un attore così importante nel commercio di petrolio russo? Gunvor commercializza un terzo della produzione di Rosneft, il braccio petrolifero del Cremlino. Un tale successo sarebbe stato possibile senza il sostegno della classe dirigente?
Il sistema politico russo dell’epoca post sovietica è fondato sull’alleanza tra l’apparato politico-amministrativo e il potere economico. Un sistema che garantisce tanto la stabilità politica quanto la suddivisione delle enormi risorse naturale di cui dispone il paese. Gli oligarchi della prima ora si erano appropriati dei vecchi apparati statali grazie al sostegno del clan Eltsin. Con l’arrivo al potere di Putin, alcuni di questi oligarchi sono stati eliminati e soppiantati da una nuova generazione di magnati più vicini al nuovo uomo forte.
La Wochenzeitung descrive lo sviluppo di Gunvor a partire dal 2003, l’anno in cui il governo russo dichiara guerra a Mikhaïl Khodorkovski, il padrone del gruppo petrolifero Ioukos. L’oligarca è incarcerato e la società smantellata. Al posto di Ioukos, il Cremlino crea una nuova società: Rosneft. Così, mentre i vecchi oligarchi si ritrovano in prigione, le nuove società statali come Rosneft (ma anche Gazprom che ha preso il posto dell’anziana Sibnef) sono vendute ad una nuova generazione di magnati che sostengono il potere politico. Il nocciolo duro di queste nuove personalità è il cosiddetto clan di san Pietroburgo, una cerchia di uomini che negli anni novanta gravitavano intorno al municipio dell’ex Leningrado e che oggi occupano le più alte sfere del potere politico e economico: Putin, Medvedev, Miller (direttore di Gazprom), Timchenko e altri ancora.
Le voci del sostegno politico di cui beneficerebbe Gunvor sono state alimentate anche dalle rivelazioni di Wikileaks secondo cui il misterioso terzo azionario della società sarebbe Vladimir Putin in persona. Secondo il politologo Blekovsky, legato all’oppositore esiliato Boris Berezovski, Putin controllerebbe il 50% di Gunvor attraverso il suo rappresentante Timchenko. La società sarebbe una delle fonti principali dell’immenso patrimonio segreto del Primo ministro. Attraverso delle dichiarazioni stampa e delle azioni giudiziarie, Gunvor e Timchenko hanno sempre smentito il loro legame con il potere russo e Rosneft.
La verità? Nessuno la può stabilire con certezza. Essa si nasconde negli organigrammi complessi che caratterizzano le società di trading: un inscatolarsi di bamboline russe con sede in vari paradisi fiscali e di cui non si conoscono i proprietari ultimi.
Una recente mozione della consigliera nazionale Hildegarde Fässler-Osterwalder (PS/SG) domanda al Consiglio federale di esaminare il ruolo della Svizzera in quanto seggio di queste società. Un’occasione per vederci più chiaro e per prendere le misure legali necessarie per garantire una maggiore trasparenza. In modo da evitare, per lo meno, di ospitare i frutti della corruzione russa, 154esimo paese su 178 nell’apposita classifica di Transparency International.
domenica 11 dicembre 2011
Quando il discreto mondo delle materie prime si apre alle borse.
Il numero dei miliardari residenti aumenta: Bilanz ha integrato undici nuovi nomi. Fra di essi tre azionisti di Glencore, multinazionale leader dell’estrazione e del commercio di materie prime. Daniel Maté, Aristotelis Mistakidis e Tor Peterson raggiungono nel club gli ultimi due condottieri della società, Willy Strahotte e il sudafricano Ivan Glasenberg. Quest’ultimo, attuale CEO di Glencore, è ormai l’ottava persona più ricca di Svizzera e tra le prime cento a livello mondiale.
Un’entrata in borsa folgorante
Il 16 maggio 2011, per molti una giornata primaverile come le altre. Non per i dirigenti di Glencore: quel giorno in effetti la società con sede a Baar entra in borsa. Il gruppo è all’apice del suo successo, negli ultimi cinque anni i suoi profitti si sono quintuplicati. L’operazione permette ai quadri dirigenti di Glencore di massimizzare il valore delle loro quote.
“L’entrata in borsa di Glencore è stata una delle più fruttuose della storia delle borse. Una volta sul mercato le azioni hanno moltiplicato il loro valore di 600 volte” spiega Dirk Schütz, caporedattore di Bilanz.
I quadri dirigenti restano i principali proprietari della società. I primi sei manager ne detengono il 38.9%. Per Maté, Mistakidis, Peterson, ciascuno proprietario del 5/6 % delle azioni, l’entrata in borsa è stata come ricevere un assegno di due miliardi di franchi. In una notte Glaseberg, che dispone del 16% del capitale azionario, ha triplicato il suo patrimonio che ha ormai superato gli 8 miliardi.
Le origini di un impero
Glencore deve la sua esistenza al romanzesco trader Marc Rich che, nel 1974, fonda l’omonima Marc Rich & Co. Rich]non è una persona qualunque. Se oggi è un tranquillo pensionato che si gode i suoi milioni a Meggen, sulla riva del lago dei Quattro cantoni, per più di vent’anni egli ha incarnato l’immagine del negoziante di materie prime per eccellenza. Sfacciato e senza peli sullo stomaco, Rich è per certi versi considerato una figura leggendaria.
Negli anni novanta l’ingombrante reputazione di Rich non è più vista di buon occhio dai suoi collaboratori, soprannominati i Rich Boys. Nel 1994 Rich si fa mettere definitivamente alla porta. La società che lui stesso aveva creato e che porta il suo nome si libera di lui. Con 600 milioni di dollari gli associati comprano la parte di Rich e cambiano il nome in Glencore (Global Energy Commodities and Ressources).
Una società controversa
La società di Baar è una delle più controverse del mondo. Rispetto all’epoca di Rich, Glencore si è consolidata. Non è più solo una società di trading, nei suoi tre settori d’attività – metalli, energia e prodotti agricoli- Glencore controlla l’intero ciclo che va dall’estrazione alla distribuzione. Il peso politico-economico di Glencore è impressionante. Basta pensare che controlla il 60% del commercio mondiale di zinco, il 50% del rame, il 45% del piombo, il 28% del carbone, il 22% dell’alluminio, il 9% dei cereali e il 5% del petrolio.
La sua cifra d’affari esorbitante è però fortemente connessa con delle pratiche poco trasparenti nei paesi in via di sviluppo. Speculazioni, relazioni con i regimi più corrotti, violazione dei diritti umani e degli standard ambientali, Glencore deve rispondere ad accuse che le piovono addosso dai quattro angoli del pianeta.
La società è anche sospettata di utilizzare delle astuzie fiscali per evitare di pagare le imposte in alcuni paesi poveri rimpatriando i benefici in Svizzera. Nel canton Zugo, una legge fiscale favorisce la presenza di holding e di società domicilio. Una holding non paga l’imposta cantonale sui benefici; essa si limita a versare un contributo dello 0.114% (cifra calcolata per una holding che dispone di un capitale e di riserve di due milioni). Attraverso un’ampia serie di tecniche d’ottimizzazione fiscale (più o meno legali) Glencore trasferisce i benefici da un paese in via di sviluppo a Zugo.
Un esempio concreto arriva dallo Zambia, povero stato africano ricco di materie prime. La filiale di Glencore zambiana, la Mopani Copper Mine (MCM), è accusata di aver gonfiato i suoi costi d’utilizzo di una miniera, di aver dichiarato una produzione di cobalto sorprendentemente troppo bassa e di aver venduto del rame ad un prezzo più alto rispetto a quello di mercato ad un suo unico cliente: Glencore. In questo modo MCM non paga alcuna imposta sui benefici allo stato zambiano. I benefici sono pertanto trasferiti alla casa madre di Zugo.
Così mentre i paesi poveri come lo Zambia vengono depredati delle loro ricchezze, in Svizzera i boss di Glencore entrano nell’esclusivo club dei trecento più ricchi.
L’entrata in borsa della società ha permesso ai sei manager più importanti di divedersi una torta di 23 miliardi di franchi. Come spiega l’eccellente libro appena pubblicato dalla ONG la Dichiarazione di Berna, se queste sei persone fossero uno stato andrebbero ad occupare il 94esimo posto della classifica mondiale dei prodotti interni lordi. Sei persone che si classificherebbero davanti alla maggioranza dei paesi dai quali traggono la loro ricchezza.
L’entrata in borsa comporta un solo problema, la perdita di libertà. A spiegarlo è proprio Marc Rich che, da buon conoscitore di questo mondo, non nasconde le sue riserve. “È molto più pratico non essere quotati in Borsa: non si è obbligati a fornire alcuna informazione. La discrezione è un fattore di successo importante in questo mestiere. Noi preferiamo agire in silenzio, a porte chiuse” .
mercoledì 7 dicembre 2011
L'opinione dei lettori: che onta!
di Vasco Ryf,
Sono uno studente in scienze ambientali «esiliato» a Ginevra che sovente invita degli « estranei » a soggiornar per diletto nel « Sonnenstube ». Sistematicamente non posso che vergognarmi di come il loro cliché del Ticino è fasullo: l'autenticità l'abbiamo americanizzata, il paesaggio del fondovalle l' abbiamo venduto, banalizzato (vedi siepi di Tuje e tappeti verdi sterili) e cementato spropositatamente ed in maniera caotica. L'unico ambiente che ancora son orgoglioso di presentare sono le valli discoste dove persistono (a stenti) strutture rurali (edifici e zone aperte) prodogi di paesani-tuttofare d'altri tempi mantenuti intatti grazie a pochi ma fondamentali lavoratori del primario ed enti che si adoperano a tal scopo. Quel che più m'arrovella è che, nonostante il problema é ai più ormai rinomato, non si faccia quasi nulla per impedire questa funesta tendenza. A titolo comparativo illustro alcuni encomiabili esempi di qualche cantone più sensibile che noi: in Jura (JU et Jura bernese) si son adoperati per il progetto Vergers+, che consiste nel perennizzare ed aumentare il numero di frutteti d'alto fusto (3000 piantagioni) con tanto di sussidio per un pressatoio per valorizzare i succhi! In Vallese sta investendo miliardi per rinaturalizzare il Rodano ( obiettivi: ridurre il rischio d'inondazioni, (ri)permettere la vita a vari pesci e migliorar l'aspetto estetico-naturale). Da noi?Pesci come lo storione codice, la cheppia, la trota marmorata son scomparsi (deflussi minimi, svarioni improvvisi, rettificazioni, eutrofizzazione.. sotto accusa), molti uccelli delle campagne son in via d'estinzione (civetta, re di quaglie, averle, upupa, ortolano)...Le soluzioni per alleviare i danni ci sono e sono semplici! A livello familiare: privilegiare giardini sobri con piante indigene (soprattutto arbusti e piante da frutta ), a livello comunale fissare un tetto massimo d'abitanti per ogni comune(siamo tutti d'accordo che più siamo e più la qualità di vita s'abbassa) e a livello cantonale promuovere progetti concreti e coraggiosi a favore dell'ambiente, nostra unica risorsa di vita!
venerdì 18 novembre 2011
Motel California: diapositive musicali dal lontano west!
Un ultimo caffè e sono pronto per l’automatica. Benvenuti a bordo figli dell’ovest: si parte.
Uscito indenne dal centro città, domato il Bay Bridge, l’onda del traffico di un sabato californiano travolge la senza marce giapponese e il suo inesperto pilota, surfista principiante.
“I’m so tired of crying, but I’m out on the road again..”
La baia è la bocca di una balena dalla quale sfuggire. Oakland, Stockton, Modesto, l’asfalto scorre sotto di noi come un tapis roulant: “Corri bella, scappa via. Fuori da questo cetaceo agonizzante!”
Silenzio!Infine solo la strada lunga e diritta. Strada e paesaggio, paesaggio e strada. Tutto è silenzioso senza lo scalar di marcia. Il piede sinistro allontanato dal pedale controvoglia. La mano destra che si gratta annoiata e distratta. La radio che gratta anche lei e forse non ha capito: cerca bella, cerca cerca cerca! Trova un vecchio blues da integrare al paesaggio ai ranch e ai tori che brucano erba brulla, gialla, catarrosa e desertica.
Magia!La voce inconfondibile è quella di John Fogerty, quello dei Creedence: “I left a good job in the city..” Non grattare bella, mantieni!Resta lì immobile, gaudia radio da tre soldi ma quanto sei brava? “..Big wheel keep on torning’?..Rolin’ Rolin’..”
Natura morta ai bordi della carreggiata: orsetti lavatori, cervi, daini, scoiattoli e gerbilli. Qualche cane, forse un coyote. Intanto corre la strada e la sua fauna ruggente: camion, camioncini, pick up, civette della pula, furgoni rialzati, ammortizzati, rumoropotenziati. I camper sono camion-case che trasportano jeep che fanno le veci di scooter. Le utilitarie? I SUV con cui si può andare anche in spiaggia, entrare in acqua, scaricare la barca e nel frattempo guidare fino al bagno duecento metri più sopra, verso la duna.
Il parco nazionale costa 25 dollari e li vale tutti. La natura è incontaminata: sequoie immense, boschi, foreste, laghi, cascate, spazi infiniti. Posteggi. Due foto e via. Chilometri di persone, digitali e cavalletti. Via via, andiamo via di qua.
Valichiamo il Tioga pass culmine stradale della Sierra Nevada. Neve neve, poi si scende dove improvvisamente il deserto ci riaccoglie. Il tramonto con vista dal benzinaio è impagabile: un lago salato, formazioni rocciose, tufi, il sole che appena se ne va lascia spazio ad un freddo nuovo. Il paesino che ci accoglie la notte sfrutta il turismo di passaggio: dieci motel, quattro distributori di benzina, due ristoranti e qualche casetta. Una strada a quattro corsie taglia a metà il ridente villaggio di Lee Vinning, 259 abitanti. Una lingua di asfalto che è piaga ma allo stesso tempo arteria, aorta, unica ragion d’essere dell’agglomerato, fonte di sangue vitale. Si tessono relazioni primarie a Lee Vinning: corpi stanchi incontrano materassi, stomaci famelici trovano burger, motori assetati dissanguano benzina, rifiuti umani liquidi e solidi trovano scarichi puliti.
Il giorno dopo si riparte presto, una tazza di caffè e via. La strada appare infinita nel retrovisore. La mano destra sempre più annoiata si intrufola nel naso fino a divellerlo. La radio abbandona la magia del giorno precedente e un triste pop finto rap mieloso non smette di infastidirci.
“Fra 78 miglia, svolta a destra”, lo dice Tommy, il navigatore satellitare. In strada si, ma equipaggiati.
Pausa caffè, ma non immaginatevi espresso e Camogli:
“Americano, caffelatte, cappuccino?”
“Doppio shot, grazie … Come scusa? No, non sono pazzo, voglio solo un doppio shot. Senza latte, neanche schiuma..ne vaniglia o aromi vari. Secco. Un po’ di zucchero se mai.”
“Fantastico, grande, eccellente. Perfetto.” Tutto è super e tutti sono gentili e cordiali.
Non si deve essere dei geni per capirlo: la cittadina di South Lake Tahoe sorge a sud del lago Tahoe. Secondo il cartello 22 mila abitanti e un concetto che non cambia. Una strada a quattro corsie, quattrocento motel, catene di fast food, le auto accese fuori dai centri commerciali. Si vive per l’adesso, il poi è un pensiero che non riguarda.
“I never thought about the universe, it made me feel small, never though about the problems of this planet at all ..”
Ad est della città siamo già nel Nevada. L’architettura aiuta a capire il cambiamento di stato. Altissimi dal nulla, una mezza dozzina di casinò sventrano il terreno come parassitici mostri. Lo stile del luogo é rappresentato dalla salsa bianca che sgorga dalla bocca di Jack, il nostro vicino al bar. Jack se la spalma con le mani sul volto, arrotola un tovagliolo di carta, lo butta sul bancone assieme al dollaro di mancia e se ne va. Benvenuti a South Lake Tahoe, città del rutto facile.
Al ristorante indicano le calorie dei vari piatti. La famiglia di fianco sembra non aver fruito delle utili informazioni dietetiche. La loro volontà di lasciare il locale si urta con la difficoltà meccanica dell’alzarsi da quelle sedie restringenti. Superata l’ardua impresa tutti e quattro i membri dell’allegra famigliola squadrano i miei spiedini di gamberetti con riso all’ananas come a dire cazzo mangia sto sfigato.
Strada, sputo di catrame perfezione d’America portaci fino a Chester, California del nord sul lago Alamanor. Fredda e nuda, esonerata dalla nozione di bellezza, ma bella per questo, per il brutto che emana. Feticista dell’orribile: sono attratto dal mostruoso. Il fascino noir di una pompa di benzina male illuminata non ha eguali. I bassifondi di Tom Waits, i vicoli di Steinbeck, smisurate scene di film: luoghi familiari già attraversati con la mente. L’America vera e profonda è meglio vederla che immaginarla, è meglio odorarla anche se poi emana fritto. Il brutto esala una strana sensazione di fascino autentico, di già letto, di già visto. Luogo abbandonato dagli dei, desolante e povero.
Povero cazzo, bisogna dirlo chiaro e tondo: l’America a tratti ci appare povera e desolante senza possibilità di svago se non quello di rialzare la macchina con molle viola e ingozzarsi di cibo spazzatura davanti ad una stupida partita di football. Magari un tiro a bowling la sera.
A Chester il bowling è chiuso. Che si fa?
Via via,andiamo via di qua.
Colazione, un altro caffé e poi via. Radio River, classic Rock 99.7 FM: “Well, I’m running down the road, tryin’ to loosen my load..” La giornata comincia bene con i vecchi Eagles. “Don’t let the sound of your own wheels drive you crazy…Standing on a corner in Winslow, Arizona..” Winslow Arizona arriveremo anche laggiù! “Take it easy…”
Per ora ci accontentiamo del magnifico Lassen Volcanic Parc. La terra che erutta zolfo tanto per farci capire quanto è forte ed energica, che basterebbe un suo ruttino e arrivederci amore ciao. Poi ci si ributta in giù, Red Bluff, Los Molinos, la Sacramento Valley lunga e diritta come una strada. Arida ma coltivata intensivamente, l’agricoltura californiana è un tritatutto di monotonia di monoalberi di pistacchi irrigati alla periferia del deserto.
Notte di passaggio notte a Chico, città universitaria e motel con puzza di insaccati. L’urlo di un gufo nella notte cozza con le urla di chi civetta nella camera accanto. Downtown giovane e dinamico, brutto ma bello, con un suo perché, una sua autenticità. Buoni burger, birra buona e gente cordiale. Mi sento integrato ma la meta è il mare di domani.
Lucerne, Ukiah, Boonville, infinita attesa.
Il mare e le sue onde e i suoi rigetti algosi.
La fine.
Un pugno in faccia dal Pacifico, la corsa all’ovest termina quì. Anche l’America deve pur finire.
“E poi e poi…”
Calma. Tramonto sul molo spoglio di turisti. Vecchi hippie, pescatori e surfisti, qualche foca: la guida ci ha azzeccato in pieno. Una Bud senza sacchetto per festeggiare. Al paese un cinema funzionante, un negozio bio, un motel scassato e un ottimo ristorante. Le auto sono vecchie e decorate, la gente è meno grassa e spensierata. Quasi sana, più burbera e sospettosa a prima vista. Più simile a noi. Una lapide ricorda i migranti giapponesi arrivati su una zattera di legno ad inizio secolo.
“I crossed the ocean for a heart of gold..”
La corsa all’est. L’est dell’ovest chiamato estremo oriente. Il nostro lontano west che più ovest non si può perché diventa est. Un alba che è un tramonto. Punto zero.
Fine della corsa ragazzi, più in là non si va. Noi restiamo qui: Point Arena, Manchester contea di Mendocino. California, Stati Uniti d’America, ottobre 2011.
giovedì 29 settembre 2011
Basterebbe uno sgabello!
Dove vorresti vivere?
Dove hai vissuto?
Dove hai sostato?
Dove hai transitato senza fermarti?
Dove stai andando?
Dove fondare una città? Dove fondare la mia città?
Dove ci siamo già visti?
Dove ti porta il cuore?
Dove sei, fratello?
Dove eravamo?
Dove saremo?
Basterebbe uno sgabello!
(Rielaborazione di un racconto proposto nell'ambito di un concorso organizzato dlla rvista UNO e Tikinò)
Ausonio ha 28 anni. Con quel nome sulle spalle Ausonio ha appreso sin da piccolo a prendere la vita con filosofia, tanto da eleggere le scienze filosofiche a indirizzo di studio. Una scelta sbagliata. Dopo l’università ha fatto i mestieri più disparati: cassiere, vendemmiatore, traslocatore, giornalista precario e supplente. Mai il filosofo, però. Ma che mestiere sarebbe poi, quello del filosofo?
Ausonio ci pensa spesso. Cosa farà da grande? Ma è già grande. Ha sbagliato qualcosa? Forse l’indirizzo dei suoi studi? La filosofia di certo non li riempie le tasche.
È l’incertezza del quasi trentenne che non ha ancora trovato la sua strada. Anche se in fondo una via l’aveva trovata, quando era in viaggio. Poi i soldi sono venuti a mancare ed è dovuto rientrare a casa, nella sua città.
Già, la sua città: che tristezza, ecco cosa non andava. Non era lui ad essere sbagliato ma la sua città.
Nuova, grande, con strade piene di auto, parcheggi, palazzi progettati da famosi architetti, grasse banche e boutique. Un paesaggio da cartolina: il lago, le palme, splendidi parchi dove è vietato sdraiarsi per leggere un libro.
La sua città ha.
Ma la sua città non è.
Non è una città.
È un posto di lavoro, un dormitorio, uno spazio commerciale, un non luogo turistico.
La città, per sussistere, deve essere qualcosa di politico, nel senso nobile del termine.
D’altronde lui lo ha studiato: il termine politica prende origine dal greco polis, città appunto. È l’autogoverno, la partecipazione dei cittadini alle faccende pubbliche
Il contrario di quanto accade nella nostra epoca. Vi sono residenti che dormono, lavorano, vanno al cinema, allo stadio. Ogni quattro anni votano. Delegano il governo della città a qualcuno che dovrebbe rappresentarli, nell’interesse generale. Ma poi si sa: l’interesse generale è dubbio e fluido. Un nulla e diventa interesse personale. È la politica dei piani regolatori modificati, delle speculazioni edilizie, dei subappalti, della legge del cemento.
Così la città, nel senso fisico del termine, prende forma: si modella, diventa nuova, grande, costruisce, demolisce (ma tutte quelle belle case Jugendstil e Art nouveau dove sono finite?), delegando ai cittadini il quadriennale gesto di una busta nell’urna.
Ausonio ci pensa: se la città non è, bisogna fondarla. Già, ma come fondare la sua città
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